Autobiografia di Marcoz Dega ovvero Metamorfosi


Io sono Marcoz Dega.

Io ero Marcoz Dega.

Ma cominciamo dall’inizio. Il mio primo ricordo è vago e fumoso – naturalmente – e consiste di pochi frammenti di una partita a carte giocata da mani grosse e vecchie su un tavolo marrone. Non c’è dubbio che fossero le mani del Nonno (materno) che mi portava con sé nei pomeriggi molli di un ex ferroviere, al bar Biffi, che a quei tempi aveva una certa fama, e lì si trovavano i migliori giocatori di tresette della provincia. Già all’asilo mi chiamavano Dega, soprannome che s’ottiene abbreviando il mio cognome. All’epoca lo trovavo estremamente offensivo, per via della a alla fine, che lo rendeva vergognosamente femminile. E più protestavo, e più il Nonno veniva in mio soccorso, distribuendo sculacciate a quelle pesti dei miei compagni, più quel nome mi s’incollava addosso, ed io divenivo con quel nome una cosa sola, si creava insomma un’identità tra linguaggio e realtà, quasi fossimo stati degli ebrei. Ma quest’identità ad un certo punto della mia vita, si sciolse, e se ciò è stato un bene o un male, io non so dirlo. All’asilo facevo parte dei fiori rossi in eterna competizione coi gialli ed i blu. Fu lì che conobbi M. T. che ovviamente militava tra le fila del gruppo dei gialli, quello a cui appartenevano i figli della elite, i rampolli della Cremona bene, con metri e metri di puzza sotto al naso, ma che evitano di farsi la doccia tutti i giorni per non spendere troppo in acqua corrente. (Devo dire, però, che nemmeno io ho mai avuto le mani bucate, e ho sempre amministrato la paghetta del Nonno con parsimonia ed oculatezza, e forse è stato quando ho smesso di farlo che sono accaduti i fatti che mi portano a scrivere questa storia, e che hanno stravolto la mia esistenza.) Le suore dell’asilo del Sacro Cuore avevano in comune col Cristo solo la peluria facciale, per il resto assomigliavano di più a kapò senza pietà, e non mi permettevano nemmeno di prolungare, fino a quando desiderassi, il sonnellino pomeridiano: una sorta di tortura della privazione del sonno, senza uno scopo. Tipicamente nazista. E’ forse in quel periodo che nacque in me, seppur in forma larvale ed inespressa, l’insofferenza che tuttora provo verso la Chiesa ed i suoi adepti. Nulla contro la religione in sé, sia chiaro, addirittura mi reputo e definisco cristiano; in alcuni momenti della vita ho avvertito una spinta potente verso il sacro e così mi sono dedicato con dovizia allo studio dei culti misterici e dionisiaci, ma sempre restando insoddisfatto, e traendo più appagamento dalla sporadica fede nel Dio cristiano. Chi, dei miei amici, se ancora si possono dire tali (sì!), chi dei miei amici non ricorda di quella volta che cominciai ad andare a messa la domenica, dopo aver visto La Passione di Cristo, il film diretto da Mel Gibson? La mattina della quarta domenica successiva abbandonai ogni velleità di salvezza, e mi girai dall’altra parte, nel letto, riaddormentandomi come un bambino. No, non è la Messa che salva l’Uomo, non è il Culto, non è la Chiesa. La Ricerca è il nostro messia. Messia, ma anche giudice. Secondo Socrate la speculazione filosofica avrebbe salvato la sua anima. Secondo me la Ricerca salva o condanna. Devo capire se sono stato condannato o salvato, è questo che cerco mentre scrivo. Ma mi sto dilungando oltre misura; torniamo al breve racconto della mia infanzia. Dicevo che non ho un ricordo positivo degli anni trascorsi alla scuola materna, infatti fui ben felice di compiere sei anni (ricordo chiaramente che mi venne regalato un pupazzo blu a forma d’ippopotamo che ho conservato per anni, ma che ora non trovo più) e d’iscrivermi alle elementari.

Furono anni semplici, è il miglior aggettivo che trovo per descriverli. La maggiore preoccupazione che avevo era la verifica di Storia d’ogni mese, per il resto non avevo pensieri. Sognavo spesso auto veloci e fiammanti, Ferrari in particolare, e mi appassionavo ai campionati di calcio, anche se la mia squadra del cuore, l’Inter, non vinceva mai lo scudetto; ma il Nonno tifava Inter, ed io non potevo esimermi dal fare lo stesso. Ero un asso del pallone. All’oratorio venivo considerato tra i migliori tiratori. Peccato non abbia coltivato questa preziosa abilità, forse oggi sarei miliardario e mi troverei seduto al Billionaire insieme a Briatore e Materazzi, con un bicchiere di champagne in una mano e la coscia di una velina nell’altra. Sta di fatto che ero anche tra i primi della mia classe, come rendimento, voti ed intelligenza, per questo lasciai perdere lo sport e mi concentrai sullo studio. A onor del vero, devo aggiungere che sì, avevo un buon piede, ma il fisico mingherlino ed asciutto non mi permetteva di sostenere gli scontri con gli avversari; inoltre, allora, ero piuttosto basso. M.T. – non vi ho detto che lo ritrovai nella mia classe alle elementari – mi chiamava Nemecsek, come quel personaggio dei Ragazzi della Via Pal che moriva di polmonite. Fortunatamente questo epiteto finì presto per essere dimenticato. Anni semplici e fugaci.

Alle medie, trascorrevo i pomeriggi a casa di M.T., che sostanzialmente mi schiavizzava, e mi costringeva e fare anche i suoi compiti a casa, altrimenti mi sarei beccato decine di pallottole di plastica dolorosissima che venivano sparate da una pistola giocattolo, oppure, peggio ancora, avrei dovuto trascorrere, nel caso in cui fosse inverno, ore intere chiuso sul balcone al freddo e senza giacca. Preferivo di gran lunga fare i compiti anche per lui, e d’altronde non posso tacere il fatto che a quei tempi provavo una sorta di venerazione per M. T., che, data l’identità sessuale tipicamente immatura dei tredicenni, sfociava in un tacito sentimento quasi amoroso, che mai osai rivelare, e certo non me ne pento! Non sono omosessuale, caro lettore, se è questo a cui stai pensando. Niente di più sbagliato. Se fossi omosessuale, forse non sarei dove sono ora e come sono ora, forse sarei ancora il vecchio Dega, e tu non leggeresti queste parole di verità che scorrono dalla mia penna. Se fossi stato omosessuale, non avrei indossato per diversi anni una tuta sportiva, comoda sì, ma decisamente antiestetica. Avessi continuato a farlo! Anche nel fatto che ad un tratto cominciai a ricercare l’eleganza, a seguire la moda, vedo i primi segni del cambiamento, della Metamorfosi.

Il liceo. Ah, il liceo! Presi la decisione di iscrivermi al Classico, il giorno prima della chiusura delle iscrizioni. Non so perché lo feci. Già allora amavo la Matematica ed ero orientato verso studi di tipo scientifico. Forse fu che avvertii l’esigenza di allargare la mia cultura – ero assetato di sapere – , forse della Matematica mi piacevano di più le implicazioni filosofiche, l’idea che fosse un linguaggio e l’esercizio di calcolo in sé non m’affascinava. O forse, il vero motivo fu che M. T. si iscrisse al Classico ed io semplicemente lo seguii.

Ma presto maturai. Cominciavo a staccarmi da lui. Gli stimoli intellettuali a cui ero sottoposto, il fascino della novità, la passione per il sapere occupavano i miei pensieri; m’immersi in profondità nello studio, in particolare della lingua greca. Acquisii con facilità, la capacità di comprensione di quell’idioma magnifico, e ben presto riuscii a plasmare frasi sempre più complesse in greco, divenendo uno dei pochi a cui gli altri desideravano sedersi vicino durante i compiti in classe, per trarre spunto dalle mie traduzioni. All’inizio del liceo, mi trovavo di pomeriggio con G. M., un ragazzo grande e grosso d’origine piacentina e d’indole fondamentalmente campagnola, e N. R., che già allora veniva considerato pazzo – il suo compagno di banco, tale M. C. arrivava a casa stravolto ogni giorno trascorso a stretto contatto con N. R. , tanto che la madre si lamentava con noi dello stress quotidiano a cui era esposto il figlio. M. C. era, come me, un “secchione”, ma, al contrario di me, non eccelleva anche nelle materie scientifiche, per questo non l’ho mai stimato granché. In quei pomeriggi, mi trovavo con i miei due nuovi amici, e si discuteva ore ed ore di Filosofia, di Storia ,di Religione e di Linguistica (ora essi non lo ricordano più, ma io sì). A volte andavamo alla biblioteca statale (che in seguito divenne protagonista della mia vita, ma quelli erano altri tempi) e consultavamo libri più alti di noi – perlomeno più alti di me e N. R.. Ho qui sottocchio la foto di classe del secondo anno di superiori: nell’angolo in basso a destra, ci siamo io e N. R. seduti dietro un banco, nel tentativo di mascherare la nostra impressionante bassezza, ma non potendo nascondere il pallore diafano dei nostri volti, forse dovuto alle pratiche autoerotiche da ragazzi di quindici anni. Quando mi masturbavo, avevo in testa immagini vivide, quasi reali. All’inizio pensavo ad una ragazza, la più gettonata era una mia compagna di classe, così carina nella sua minuta e proporzionata struttura corporea, la carnagione scura e i capelli corvini e fluenti… (Come fui felice quella volta che il professore assegnò, a lei ed a me, i coppia, l’analisi della prima egloga delle Bucoliche!) Poi la mia immaginazione si spostava su qualcosa di più indefinito e vago, come una giornata di sole, oppure una mappa geografica - mi ricordo infatti che eiaculavo pensando alle capitali degli Stati Uniti, quella dello Stato di New York era la mia prediletta. Anche perché in quello Stato c’è Newark, da cui proviene la mia famiglia, da parte di madre, che ha origini italiane, ma che quattro generazioni fa emigrò oltreoceano, ed un ramo di essa, il mio, fece poi ritorno in Italia, ma al Nord, tanto che ho più parenti a Parma che in Calabria. Quante domeniche felici ho trascorso a casa di quei parenti parmigiani! Sono stati probabilmente quei pranzi, degni d’essere descritti da un Petronio – senza nulla togliere al sugo casereccio che cucina mia madre – a farmi guadagnare in poco tempo, quei centimetri che mi separavano da un’altezza dignitosa per un adolescente, anzi, in pochi mesi, raggiunsi e superai le teste dei miei coetanei, fino a guardarli dall’alto in basso. E poi a Parma abitava una mia cugina – mi chiedo che fine abbia fatto ora – una di quelle cugine che si vedono raramente, che non le consideri come tue parenti, e se sei un adolescente, non ti fai scrupoli a desiderarle (non glielo mai rivelato, d’altronde, a livello razionale, sapevo che si trattava di un sentimento sconveniente). Come mi ero iscritto al liceo per M. T., così poi mi sarei immatricolato a Parma per via di quella mia cugina… ma non saltiamo troppo avanti con la storia.

Molti dei miei amici rimpiangono gli anni del liceo. Io no. Gli anni più belli e felici li ho trascorsi quando frequentavo l’università. Al liceo ero poco consapevole. Di cosa? Di tutto, probabilmente. Quanto darei per tornare al liceo, ma con la testa che mi trovo ora. Penserei meno allo studio, me la godrei di più. Magari, come faccio ora, non disdegnerei solo un buon bicchiere di vino, ma anche una sbronza esagerata, malinconica, autodistruttiva ma lenitiva al tempo stesso. Non preoccuparti, mio unico lettore, capirai cosa intendo. Invece, sai cosa non capirò mai? La passione morbosa che avevano i miei compagni di classe per il corpo docenti. Sempre pronti a invitare i professori a cena, entusiasti di essere accompagnati in gita da questo o da quella, qualcuno aveva pure come modello di vita un insegnante che alzava il gomito in ogni occasione possibile, qualcun altro – e qui mi riferisco a M. T. – sembrava innamorato del professore di Storia e Filosofia (a cui tra l’altro io stavo particolarmente antipatico) tanto che i miei amici lo soprannominarono, a sua insaputa – forse lo scoprirà leggendo queste pagine - “Habibi 2”. Habibi era già il soprannome di un altro compagno, che aveva tendenze omosessuali, dicevamo, soprannome coniato dallo stesso M. T. di ritorno dall’Egittto (significa “amore mio”). A me i professori stavano un po’ tutti sulle palle, indiscriminatamente. Ma non per loro demerito, erano brave persone, e, per la maggior parte, bravi insegnanti; è il rapporto intimo alunno/docente che mi indisponeva, e non tolleravo tutta questa rincorsa maniacale al contatto extrascolastico dei miei compagni verso i professori. Mi pento però non aver apprezzato, come gli altri, le cene al ristorante il sabato sera, un’usanza che è nata nel triennio, poiché prima s’accontentavano d’una pizza insipida nella solita pizzeria del centro. Quando studiavo all’università, invece, ero in prima fila se si trattava di organizzare una cena fuori, oppure nell’appartamento/studio di mio padre. Lo chiamo “casina”, perché è un monolocale piccolo e grazioso, arredato secondo un gusto moderno, all’insegna del design più raffinato, che ho voluto venisse intestato a me. E’ lì che ho dipinto alcuni quadri tra quelli che considero i miei capolavori, tra cui Maternità talebana, o La Collina dei Samurai. Ho sempre amato i Samurai, forse per il fatto che sono un prodotto dell’Oriente; così come, tra i miei artisti preferiti, annovero Hokusai – in particolare i suoi disegni erotici – e apprezzo senza misura le musiche che provengono dal Levante, da quelle arabe, a quelle indiane dei Panjabi MC, anche se, a onor del vero, non ho mai coltivato una vera e propria cultura musicale, forse per pormi in antitesi con M.T. Durante gli anni del liceo, infatti, non solo mi ero allontanato da colui il quale era sempre stato il mio più intimo amico, ma era cresciuta in me una sorta di insofferenza nei suoi riguardi. Mi chiedo il perché di tale mutamento estremo. L’insofferenza, è vero, s’accrebbe col tempo, quando, all’università, lui si fece spocchioso e borioso, ma certamente nacque anni prima, ed evolse in maniera graduale. Forse la metamorfosi è cominciata allora, e quella fu una delle sue prime manifestazioni. Tu lettore, che mi conosci, se dovessi indicare il momento esatto in cui avvenne, nomineresti l’inizio dell’università, o quando ho conosciuto G., ma io ti dico che successe molto prima, senza una rottura istantanea, piuttosto con una trasformazione lenta e graduale. L’ingegneria era per me un hobby, un passatempo. Non dedicavo grande attenzione allo studio, da un lato perché quel tipo di materie non è certo stimolante, dall’altro perché la mia attenzione era, soprattutto nei primi anni, rivolta verso l’impegno politico. Andavo ai comizi, scrivevo per il sito del centrosinistra cremonese, ero al centro dei riflettori quando nacque il Partito Democratico, in quanto uno dei pochi giovani, se non il solo, che si davano da fare in prima linea. La cosa comunque non ebbe molto seguito, e lasciai quasi stare. Avevo perso interesse in quell’avventura politica perché ben presto mi resi conto che ero un fantoccio dei soliti vecchi di partito, uno slogan, che stava lì a comunicare quanto la nuova forza politica desse spazio ai giovani e al futuro. Non era ciò che volevo. All’epoca flirtavo anche con il mondo dell’arte (non come pittore, ma come critico) e collaborai diversi mesi con una rivista online che tratta di mostre ed esibizioni artistiche. Quello fu uno dei periodi più belli ed intensi della mia vita. E fu in quel periodo che conobbi il Lex e di conseguenza G. Non ricordo come cominciai ad andarci. Forse per la posizione che occupa, in centro (appena dietro al battistero di una delle più belle cattedrali del mondo) eppure defilato (potevo fumare tutte le sigarette che volevo, senza temere che mio padre mi scoprisse). Ben presto divenne per me una seconda casa. Ogni sera che ero a Cremona, non mancavo di sedermi ai tavolini fuori, preferibilmente sulle sedie di vimini, comode e calde in ogni stagione, per l’aperitivo, ed anche dopo cena. Con me spesso veniva G.M., il grande e grosso piacentino. Il fine settimana andavamo in biblioteca a studiare, leggere il giornale, fumare, chiacchierare. Verso le sei di sera raggiungevamo velocemente il Lex. G.M. aveva (ed ha, suppongo) un cugino di pochi anni più giovane di lui e di me, che già conoscevo di vista, sin dai tempi dell’asilo. C’è una foto che mia madre ritagliò dal giornale locale, che ritrae il cugino di G.M. che s’arrampica su un “castello” per bambini, all’asilo, e dietro, in un angolo, s’intravvede la mia sagoma appoggiata al muro che guarda verso di lui, verso il futuro. Per un qualche motivo, prima che lo incontrassi al Lex, provavo verso di lui una certa avversione, non giustificabile razionalmente. Cominciò a sedersi al tavolo con noi, tra una birra e l’altra ci si conobbe, e ben presto, non so come, diventammo inseparabili. Ricordo di quella volta che gli feci guidare la mia auto - ero uscito dal Lex un po’ brillo – e parcheggiare nel mio garage. La manovra per entrare non è per nulla agevole. G. sterzò oltremisura finendo con l’appoggiare l’angolo anteriore sinistro contro il muro della rampa d’accesso. Non sapendo sbrogliare la situazione, mi costrinse a prendere in mano il volante. Le innumerevoli birre piccole mi portarono a sterzare dalla parte verso cui un uomo sobrio non avrebbe mai girato. Dovetti dire addio a buona parte della fiancata sinistra. Ma la nostra amicizia non ebbe alcun danno, anzi ne uscì ancora più profonda. L’aspetto importante di questa storia è che dimostra che già allora avevo preso a bere. Il vino m’è sempre piaciuto, ma non ho mai ecceduto. Qell’estate – forse l’ultima che trascorsi a Cremona – cominciai ad apprezzare la birra, in particolare quella servita al Lex, così leggera e poco frizzante. Ma soprattutto così economica! Nonostante ciò, iniziai a spendere la paghetta settimanale del Nonno in aperitivi e birre dopo cena. Anche ora, che scrivo, mi scolerei, di nuovo, una birretta di quelle, tutta d’un fiato come ho sempre fatto.

Ed era una sera ebbra, quella in cui La vidi.

Sedevo al tavolo nella gabbia, con le spalle rivolte al muro e G. di fronte a me; tra di noi, due chiare schiumose e fresche. Guardai G. e gli domandai chi fosse quella ragazza dietro di lui. Si voltò lentamente, ispezionando la sala. Non appena la vide, capì subito di chi stavo parlando. Il caso voleva che si trattasse proprio di una sua amica di vecchia data. La chiamò al nostro tavolo e la fece sedere su uno sgabello. La voce mi tremava mentre mi presentavo. Subito dopo caddi in un mutismo assoluto, e Lei continuò per una decina di minuti a conversare con G. senza degnarmi di uno sguardo. Ma io continuavo a fissarla, e già sentivo crescere in me una passione forte, romantica ed animalesca nello stesso tempo. Mi ero sempre considerato una monade, un atomo stabile, un essere completo in se stesso. Quella sera m’accorsi che senza di Lei non ero affatto compiuto. Capii, e non avevo alcun dubbio, che in Lei avrei trovato il vero me stesso, la mia forma compiuta, l’eternità che è propria della perfezione!

Quella fu l’unica volta che La incontrai. Ora, da sotto questo ponte, guardo le terrazze romane su cui mi troverei se non avessi perso la strada, se la Metamorfosi non fosse mai avvenuta.



Comunque rimane uno sfigato. sg