Munich
Steven Spielberg
2006
“Munich” è un film
tonico come un videoclip, ben interpretato,
elegantemente sbiadito, stilisticamente teso al ritmo dei migliori film di
spionaggio. Di questi non rinuncia soprattutto al tentativo di dare
un’interpretazione dell’azione violenta indetta dai vertici di un governo e dei
superiori motivi che ad essa possono condurre (il
desiderio di pace e di sicurezza, la volontà di potenza, il mantenimento degli
equilibri internazionali, la vendetta). Film
come “I tre giorni del Condor” hanno fatto scuola in
questo senso, e all’opera di Pollack soprattutto
penso quando vedo l’ultima scena di Munich, allorchè in un giardino sull’East
River all’ombra del Palazzo di Vetro ci viene disvelata l’Amara Verità. Allora era Robert
Redford che apprendeva le ciniche e coerenti ragioni
che
Un film quindi per la pace e contro la
violenza, Munich, ma latentemente
incline a forme di giustificazionismo, c’è chi dice per gli arabi (Bret Stephens, Wall Steet Journal), io dico per gli israeliani. Già questa
distinzione è figlia di una ambiguità di fondo, quella
per cui il regista ci mostra la crudeltà di qualsiasi rappresaglia comunque con
occhio pietoso, da una parte nei confronti delle vittime nell’attimo della loro
esecuzione (questo può aver tratto in inganno Stephens
e qualcun altro), dall’altra rispetto ai killer in ogni altro momento, tranne
quello dell’uccisione. Anche questa potrebbe essere la
volontà di Spielberg: non dire ma far riflettere e
condurre implicitamente alla tesi finale. Ma qui valgono le ottime valutazioni
di Mereghetti, visitabili per merito di Callas nel
guest-book, secondo il quale il film è ben lungi dall’offrirci un ritratto
storicamente attendibile di quegli avvenimenti, poiché si propone come uno
stimolo interpretativo dell’accaduto, e l’interpretazione è soffusamente
ma implacabilmente velata di pietas
nei confronti degli israeliani, i soli che di fronte all’omicidio esitano e
si interrogano, salvo poi diventare precise macchine da guerra (vedi episodio
in cui il protagonista, quasi volenteroso di rispettare il principio di
legittima difesa, uccide l’islamico con cui aveva parlato la notte prima solo
dopo esser stato da lui aggredito). Insomma, Spielberg
è libero di prendere qualsiasi posizione, ma almeno che la esponga
in modo univoco e coerente, altrimenti inevitabilmente nello spettatore resta
un senso di incompiutezza. Nell’ultima scena, già ricordata, vediamo Bana (mi scuso se continuo a chiamare i personaggi coi nomi degli attori che li interpretano, ma è un vizio
duro a morire) parlare con Israele, per mezzo del suo funzionario, e sebbene
prevalgano gli orientamenti contro la violenza che si autoalimenta, sostenuti
da Bana, le ragioni quasi necessarie di Israele sono
ben difese in una dialettica che ci può sembrare scettica, tesa alla sospensione
del giudizio. Nel parallelo con il Condor, il cinismo meccanico della Cia soccombe di fronte al buon senso e alla razionalità positiva di Robert Redford. Soccombe nel dialogo, ma prevale come superiore
ragion di Stato. Sebbene Bana
e Redford recitino ruoli non confrontabili, questo
significa essere chiari nell’esplicitazione di
un’idea tramite la macchina da presa.
Marcoz Dega