MANGIARBERE – Bouillon Chartier, Parigi

 

 

Ristorante nel 9° arrondissement

rue de Fauburg-Montmartre, 7 (due passi dalla fermata Grands-Boulevards della metro)

Sempre aperto, dalle 11.30 alle 15 e dalle 18 alle 22

 

Un punto di riferimento collaudato per l’Idiota in trasferta a Parigi; e non solo per la “garanzia di mangiare, per poco, un cibo passabile anche se i piatti non sono sempre perfettamente caldi”, come recita la guida Routard, affidabile compagna e navigata maestra del viaggiatore che non voglia essere solo un turista. Non che si mangi sto gran bene, da Chartier, intendiamoci. Non che non sia “turistico” – i turisti sono il grosso della clientela, checché se ne dica. E’ una questione d’ambiente; una questione di stile. Camminate per un po’ nel “triangolo delle Bermuda” a pochi isolati da qui, tra Place Vendome/l’Opera Garnier/la Madeleine - il quartiere patinato delle gioiellerie e degli alberghi a sessantasei stelle dove-ha-alloggiato-lady-D; fate un giretto per le boutique di Lafayette dove per un pezzo di iuta ritagliato ad abito vi chiederanno di vendere vostra madre; passeggiate lungo i boulevards che corrono tra l’ottavo e il nono, con i tavolini all’aperto delle brasseries ordinatamente stipati di turisti in divisa da turista, mentre la massa carica di souvenirs e acquisti vari ondeggia tra una vetrina e l’altra, e il traffico di una delle più grandi città d’Europa si ingorga, strombazza e muggisce. Allora capirete che cos’ha di diverso “questo immenso bouillon (nda, trattoria) del XIX secolo”, seminascosto in un cortile di una laterale del boulevard des Capucines, a volte con la coda di gente che aspetta fin sulla strada. Si entra attraverso la pesantissima porta a bussola; il locale è enorme e incasinatissimo, simile più che a un bistrot parigino ad una stazione ferroviaria di due secoli fa: a questo fa pensare la decorazione degna di un qualsiasi “bar Flora”/”caffè Viennese”/”bar Liberty” della provincia lombarda – con la differenza che qui è tutto rigorosamente originale e polverosamente stagionato; a questo fanno pensare i portabagagli in stile carrozza del treno che corrono nel salone, su cui ammassare cappotti, zaini, ombrelli, borse, pacchetti, la vicinanza cameratesca o addirittura intima con sconosciuti di ogni specie, sesso, provenienza e odore, le orde di camerieri incazzosi col gilet nero che si aggirano tra i tavoli con piglio deciso, la massa di gente che chiacchiera, mastica, beve, alita, ordina, si lamenta. Non mi sovviene nell’ambito della ristorazione altro paragone che non una sagra di paese. Che, capirete bene, è cosa ben diversa dalla folla lungo il boulevard des Capucines…

Il menu, a occhio e croce, è lo stesso di tre anni fa: un foglio delle dimensioni di un manifesto cinematografico lungo cui si allineano ventidue entrèes, sette piatti di pesce, quindici piatti principali più i vari contorti, dessert, gelati etc. etc. C’è l’imbarazzo della scelta, direi; nonché la prova provata che la cucina francese non è solo la nouvelle cousine dello stereotipo né il poulet con le patatine fritte e la moutarde del tubetto che ci ha inseguito nel nostro lungo viaggio tra l’Italia e le coste del nord l’estate scorsa. C’è un’ampia zona intermedia, di onesta cucina più o meno casereccia, dai gusti meno ostili di quel che si possa pensare, che si declina senza colpi di testa particolari sulle lavagnette dei bistrot e dei ristorantini segnalati dalle guide nelle vie laterali, e che da Chartier troviamo esaustivamente riassunta senza troppe pretese di raffinatezza. Tutti i classici per ogni palato, banali se volete, ma sempre piacevoli: i piatti di carne e pesce “piani” e solidi della tradizione, con qualche exploit brindoniano come la testa di vitello, antipasti stuzzicanti come lumache, prosciutto di Bayonne, avocado con i gamberetti, e quel delizioso filetto di aringa affumicato con la vinaigrette; e una tentatrice selezione di formaggi con la controindicazione della radioattività (provare per credere!). sono mediamente più vicini al nostro palato che nel resto dei ristoranti che ci sia capitato di provare, senza sfoggio eccessivo di quegli intingoli che io trovo molto apprezzabili ma che per chi viene dalla parte “giusta” delle Alpi sono solitamente alieni. Punto di forza è il vino: non tanto perché il cuvèe Chartier imbottigliato per il ristorante, un rosso leggero e di compagnia, sia eccellente, ma perché lo trovate (ed è cosa ben rara, in questa città dove l’acqua costa più di una birra media da noi) a prezzi “italiani” – con l’handicap che ai francesi è irreversibilmente ignoto il concetto di “caraffa da ¼, ½, 1 litro” e si ragiona in termine di ¼, ½, 1 bottiglia, con un’ovvia perdita di quantità rispetto alle nostre osterie.

Un posto simpatico, pittoresco e chiassoso, dove vale sempre la pena di aspettare un po’ per sedersi – a onor del vero, stavolta a me e a Callas è andata bene, giacchè di coda non ce n’era proprio; ma io, Gastro e Gonzo a suo tempo siamo stati perfino costretti a sloggiare per il sopraggiunto orario di chiusura. Salvo venir reindirizzati da un maitre con i baffi alla Kit Carson su un certo ristorante “Kitchen”, che si rivelò, questo si, il prototipo della cucina che tutti aborriamo, fighetta ed estremamente design. Il contrario speculare del Bouillon Chartier.