Alcune
precisazioni.
Pubblico queste righe sul
sito non perché ne vada particolarmente fiero, né perché in generale mi piaccia
sbandierare quel che scrivo, ma perché richiesto. Un atto di buona volontà nei
confronti del sito, diciamo. Faccio presente che per quanto alcune persone,
cose, situazioni, luoghi siano familiari all’Idiota medio e cremonese, questo
non è un “racconto” autobiografico. Piuttosto, una rielaborazione narrativa di alcuni spunti (questi si, autobiografici) a mio giudizio
particolarmente interessanti, che approdano a qualcosa di nuovo e puramente
letterario. Ciò detto, ecco qua. A Callas è piaciuto;
a me piace più di molte altre cose che ho scritto; voi pensatene
ciò che volete.
(il seguente racconto sparirà
tra poco perché l’ho anche oziosamente spedito ad un concorso, e mi sono
impegnato a non pubblicarlo da nessuna parte per un certo periodo, che vinca o
no il salame in palio. Regola assurda, ma tant’è.).
Notturno
Agonia
di una serata allegra. Prima o poi doveva succedere:
ma perché così presto? Eppure, è inevitabile: le
risate non scoppiano più con la stessa frequenza, e poi scompaiono del tutto.
Ad uno ad uno, gli sguardi affogano tra le bollicine
dell’ultima birra, ed è finita. Meglio sciogliere la brigata;
meglio non farsi prendere dai soliti pensieri tristi. Non mischiamo lavoro famiglia fidanzate esami universitari con quel che
resta di stasera. Si trasmigra in silenzio dal locale alla strada; ci si mette
d’accordo per un futuro imprecisato, e poi ognuno per sè.
Buonanotte, ragazzi, buona vita.
Copione
noto e arcinoto, chissà da quanti anni.
Eppure,
pare un peccato concludere così… In fondo, la notte
non è neppure cominciata. La città è insolitamente fresca, il
cielo limpido invita a chiedere ancora qualcosa. Guardo l’orologio. C’è
stato un tempo – neanche tanti anni fa – che andare a letto a quest’ora, sotto una stellata del genere, mi sarebbe parso
un crimine imperdonabile. Uno spreco.
Neanche
Tango sembra convinto. Siamo rimasti solo io e lui,
per una volta a cercare di non arrenderci al declino delle cose umane.
Marciapiede di fronte al bar: da dentro, arriva un eco di musica jazz. “Che facciamo?” La domanda resta sospesa nell’aria. Lui si
stringe nelle spalle: “E’ un peccato andare a casa così presto.” “Facciamo un giro?” Sarà pure una grezza alchimia di cibo
nostrano a poco prezzo, vino da osteria e birra sciacquata, quella che ci
fermenta nello stomaco: eppure, merita di essere nobilitata in qualche modo. Si
sa che per due personaggi romantici in cerca di uno scopo notturno, una panda ed un po’ di campagna bastano a rendere la vita
degna di essere vissuta. Come ai vecchi tempi.
Notte,
notte d’estate: come fai a non lasciarti ipnotizzare
dal profumo? Odore di fiume e di terra, di piante che dormono, e dormendo respirano. La strada si svolge tra campi, casolari,
paesi silenziosi; scivoliamo nel buio come un grumo di luce. Curva dopo curva,
la tenebra si schiude quel tanto che basta per farci passare, e poi si ricompatta, densa e scura, alle nostre spalle. Profili di alberi e di edifici lontani, sfilano qua e là in
lontananza come ombre cinesi, più neri del fondo nero: ma cos’altro si nasconde
nel mondo buio intorno a noi? Ci sono misteri noti solo alla luna, e forse alle
stelle, anche nelle nostre tranquille campagne.
Non
abbiamo una meta precisa: e in fondo, sono proprio così le notti che mi
piacciono. Racconti senza una trama, senza un definito inizio. Sai solo che,
quando meno te lo aspetti, la magia si spezzerà, e com’è incominciata, così
improvvisamente finirà. Per questo devi godere di ogni
singolo respiro della notte. Di ogni lepre che
correndo ti attraversa la strada, di ogni tratturo inesplorato tra i campi che
sfida la tua voglia di ignoto.
“Ti
ricordi la casa degli spiriti?” Fu così – una chiacchiera tra le tante - che
prendemmo la via dei ricordi, quella sera. La casa degli spiriti… quanti anni,
quante cose nel frattempo; quanti “me stesso” diversi si erano frapposti, per
ognuno di noi – eppure, sentivamo, la serata era
quella giusta: senza che nemmeno ce ne accorgessimo, il diaframma tra oggi e
ieri si era fatto all’improvviso sottile, trasparente. Una parola via l’altra,
l’autoradio, la notte – ed eravamo scivolati nel passato. La casa degli
spiriti: avremmo
avuto paura ancora, quella sera: proprio come una volta, ne ero certo. Quando non c’era luogo più sinistro, e proprio per questo lo
andavamo a cercare. E non eravamo nemmeno più bambini.
Anzi, qualcuno aveva già la patente. Eravamo semplicemente… romantici. Ti
ricordi? Due, tre alla volta, di giorno – senza nessun
motivo, solo in cerca di brividi. Il bosco ceduo, compagnie serrate di alberi dritti e alti; il ponticello sulla roggia; il
sentiero fangoso – e in fondo, che cosa? Il vecchio cascinale
diroccato, leggende metropolitane di riti satanici, muri cadenti, oggetti alla
rinfusa tra i calcinacci, scritte sgrammaticate alle pareti,
un’inquietudine sottile e persistente. La sensazione di essere
appena alle porte della città, eppure incommensurabilmente lontani. Un mondo
ovattato di nebbia e silenzio, di alberi gocciolanti,
foglie che cadevano scricchiolando – l’urgenza di muoversi rumorosamente, di
parlare per non essere così dispersi nel niente. E di
notte? Atmosfere da romanzo gotico: profili neri, acque
oscure, gemiti del vento – e il muro indistinto, impenetrabile degli
alberi, dietro cui non poteva, non poteva affatto, esserci la città che
conoscevamo. Ci andavamo sempre per pisciare birra dal ponte, nel torrente –
era un rito, un mistero suburbano; e i gufi si lamentavano con la luna del
chiasso di noi giovani romantici un po’ troppo allegri.
E così
ci tornammo, io e Tango, qualche anno dopo – in cerca dell’antico regno
solitario, in una notte d’estate; ma il tempo passa, e non fu un brivido di
paura a gelarci mentre pisciavamo dal ponte, come
allora; non più, non davanti alla spianata cosparsa di ceppi come lapidi, e,
laggiù in fondo, sagome di ruspe e macchinari, e nessun cascinale diroccato. E’
il destino dei boschi cedui – essere tagliati, no?,
diceva una voce nella mia testa, e molte altre cose sconnesse, come una
mareggiata. Sgomberare - non c’è più niente da vedere – è
tutto finito. Non ci saranno più spettri nella nebbia, né demoni sotto la luna
Eppure, rimanevamo lì in
silenzio, senza deciderci ad andar via.
Poco
lontano, l’autostrada mugghiava a intervalli regolari.
L’acqua scorreva lenta sotto il ponte. Solo gli alberi percepivano un alito
leggerissimo di vento, e sussurravano. Davanti a noi, inquadrata in campo
lunghissimo dove c’era stato il bosco, la città si stagliava sul fondale del
cielo: nitidi profili di campanili, palazzi, ciminiere, soffusi di un bagliore
uniforme che dilagava dall’orizzonte e assorbiva stelle fin sopra la nostra
testa.
“Ma che notte è? Non c’è nemmeno buio”, feci io.
“Che
schifo”, disse lui sospirando.