Norman Mailer

Il Nudo e il Morto*

Baldini & Castoldi, 1998; 854 pg.

 

  

 

L’antesignano (ideale) di tutto il Vietnam letterario e cinematografico: tanto più sorprendente e “preveggente”, se pensiamo che è stato scritto nel 1948, quando la guerra del Vietnam manco c’era stata. C’era stata però la seconda guerra mondiale; ma non quella eroica, “moralmente impegnata”, del fronte europeo, o almeno così propagandata e celebrata dopo la vittoria - la guerra del Pacifico, una mattanza crudele ed infinita, per strappare ai giappi un’isola (perlopiù deserta) dopo l’altra. Nemmeno in apparenza, dunque, un conflitto in nome di un ideale: nessuna città europea da liberare, nessun ebreo da salvare, nessuna tirannia nazifascista da abbattere – un puro conflitto imperialista: due potenze si scontrano all’ultimo sangue per il dominio di un mondo cui sono entrambe estranee. O almeno questa è la visione che ne hanno tutti, sull’isola di Anopopei che la divisione del generale Cummings si contende palmo a palmo con i giapponesi. Un universo terribilmente ristretto (dilatato soltanto dai ricordi di casa o delle campagne precedenti), in cui si compie la vicenda di un eterogeneo gruppo combattente, il “plotone ricognizione”, un campione proletario e piccolo borghese catapultato controvoglia in un inferno tropicale dove tutto è ostile, a partire dal clima e dalla natura. I soldati di Mailer combattono e sopravvivono (o muoiono) come i ragazzi di Remarque sul fronte occidentale: vanno al macello per ragioni che non capiscono, a volte si adattano passivamente alle circostanze brutali in cui sono immersi, e così facendo sembrano smarrire ogni coordinata del vivere civile; i rapporti umani si distorcono in un cameratismo a volte bestiale, il debole e il timido vengono emarginati, la recluta morta è solo una recluta morta, il prigioniero è meglio passarlo per le armi che portarselo dietro. I sentimenti, il senso morale, sembrano essere anestetizzati – niente stupisce, niente disgusta, niente commuove: vedi la scena agghiacciante della sbronza dei soldati tra i cadaveri nemici, in cui si svela più che mai il carattere oscenamente fisico, deturpante della guerra, tra corpi maciullati, vermi e orrende mutilazioni. E intanto, sorge un dubbio sottile: sono mai esistiti davvero, questi sentimenti e questo senso morale? E’ davvero, se non così peggiore, così diversa la vita dei soldati sbattuti sull’isola da quella, spesso grama, che rivive nei capitoli della “macchina del tempo” inframmezzati all’azione, ambientati il più delle volte in un’America povera, spietata e razzista? (Mailer, ebreo, è particolarmente attento a quest’ultimo aspetto: e ne esce un quadro inquietante e paradossale dell’americano medio “sotto le armi per la libertà”, in genere razzista e antisemita.) Più ancora che il combattimento, è il tutto quello che viene prima e dopo a minare il morale della truppa: rispetto alla mole del libro, si sparano decisamente pochi colpi; per i soldati è molto, molto di più il tempo che se ne va mentre marciscono di noia negli alloggiamenti, lavorano come dannati per costruire strade e fortificazioni, marciano in condizioni terribili nella foresta. Anzi, la seconda parte del libro, storia di una missione esplorativa del “nostro” plotone, che da decisiva per l’esito della campagna si rivela semplicemente superflua, è la cronaca, più che di un’azione di guerra, di una successione senza fine di fatiche e disagi impressionanti; finchè a un certo punto dei soldati in marcia non resta che un gruppo di schiavi trascinati per i boschi e le colline solo dalla cieca disciplina. Che alla fine ha comunque la meglio su tutti: anche sul soldato Red, ex vagabondo, il duro solitario che per ottocento pagine aspetta l’occasione per fare il culo al fanatico sergente maggiore Croft, e alla fine non ne ha il fegato. E non va meglio per chi comanda: lo stesso Croft, il classico figlio di puttana che si sente a suo agio solo in mezzo al combattimento e costringe gli uomini a pericoli enormi, forse per provare qualcosa a se stesso più ancora che al mondo – senza riuscirci, nel momento, cruciale; il tenente Hearn, che fino allo spiazzante (davvero) colpo di scena di pag. 718  è un po’ la coscienza critica del narratore sulla scena e forse il suo alter ego (Mailer era stato ufficiale nel Pacifico, pochi anni prima di scrivere il libro) si dibatte senza via d’uscita tra il suo progressismo harvardiano e la realtà di ciò che vede, il meccanismo di una catena di comando e di un sistema di ingiusti privilegi per gli ufficiali, che più ancora che alla guerra è finalizzato a piegare gli uomini, a sottometterli e controllarli attraverso il timore e l’odio; il generale Cummings stesso, ambizioso militare di carriera, lucido e freddo pianificatore dei destini dei suoi uomini, reazionario sognatore di guerre sempre più “industriali”, nemmeno troppo copertamente ammiratore del metodo fascista, che all’ultimo si fa clamorosamente soffiare il merito della vittoria da un suo subalterno (pure fesso).

 

*Poncharello ha una sua idea sul titolo di questo libro. Ma per non essere tacciato di fraintendere il suo pensiero, lo invito a esporla personalmente, se vuole.