Gisbert Haefs

Annibale

Tropea, 1999; 667 pg.

 

Della serie “un libro per Cappella”: in attesa dell’arrivo sui nostri schermi di Trecento, consiglierei al nostro Capitano al lavoro sulla tesi di rilassarsi gustandosi questo psichedelico volumazzo, nel suo genere (il best seller storico alla Manfredi, per intenderci) direi quasi un capolavoro. Non gliel’ho consigliato prima perché lo davo da tempo scomparso nella voragine di un prestito pluriennale: ora però è tornato, e con esso il piacevole ricordo di una lettura forse non imprescindibile ma sicuramente molto suggestiva. Precisiamolo, il titolo trae molto in inganno: non siamo davanti ad una biografia “ufficiale” del grande condottiero cartaginese, e nemmeno ad una storia romanzata della sua vita, sulla falsariga di quelle che sono andate di moda negli anni passati e che adesso vanno a riempire gli scaffali dell’usato cinquanta centesimi al volume. Non è un ennesimo “Alexandros” (scusate, Valerio e Carlo Massimo, ma era veramente un pattume indigeribile), non è “Ramses” o “Mozart” (sì, Christian Jacq ha scritto anche una biografia massonicheggiante di Mozart), “Magus – La vera storia di Nostradamus” e tutta sta paccottiglia – penso di aver reso l’idea. Haefs non vuole solo restituirci un Annibale profondamente diverso da quello tramandato attraverso i secoli dalla prosa dei vincitori; il suo sguardo abbraccia tutto il mondo del suo eroe, un mondo “altro” rispetto alla nostra visione dell’antichità: altro geograficamente e culturalmente. Il mondo come lo vedevano (e dominavano) i Cartaginesi; la metà orientale dell’ecumene sulla quale, quando i Romani cominceranno bellicosamente ad affacciarsi, già da secoli si stende l’ombra della ricca, potente, civilissima Cartagine. Anzi, Qart Hadasht, perché nel suo tentativo (encomiabile, almeno nelle intenzioni) di far dimenticare allo spaesato lettore tutto quello che sa (o crede di sapere) su quest’epoca, l’autore ci sottopone al costante e sfibrante confronto con la toponomastica “originale” dei punici, dei greci, degli egiziani: un’idea alla Mel Gibson (o alla Tolstoj) che per forza di cose non può essere portata alle estreme conseguenze, visto che non si può sottotitolare un libro, ma che certamente costituisce sin dall’inizio un tratto estremamente caratterizzante dal punto di vista estetico e ideologico. Già in questo si delinea – da subito – il nocciolo del terrificante scontro di civiltà in atto. Da una parte ci sono i Romani, irrimediabilmente ancorati alla grettezza del loro passato “agricolo”, che siamo abituati sin dal ginnasio a considerare la fonte incontaminata di una virtù rustica e virile, ma che qui si rivela piuttosto come un pregiudizio ottuso e limitato: vedi il ritratto “insolito” di Attilio Regolo.  Imperialisti e spietati, i Romani sono ciechi assimilatori e omologatori del molteplice: un solo impero, una sola lingua, una sola mano a stringere in un’uniforme morsa di ferro – la cosiddetta “romanizzazione” – tutto il mondo conosciuto. I sandali delle legioni romane avrebbero presto calpestato tutti i cocci. Da quei frantumi avrebbero ricavato a forza le tessere di un unico, desolante mosaico, leggiamo già nel prologo. Haefs chiaramente esagera, quando nella postfazione-spiegazione storica dice, in controtendenza alla storiografia filo-romana del mondo occidentale, che Mommsen non è stato l’ultimo storico ad aver professato rispetto per le virtù del’età repubblicana. Per parte mia osservo che, considerando le aggressioni pianificate, l’espansionismo, l’aspirazione al dominio mondiale, la strategia della terra bruciata, i massacri di popolazioni civili, il terrore, le continue rotture dei trattati e il genocidio, non mi ispirano invece alcun rispetto, bensì paralleli senz’altro inammissibili con avvenimenti del recente passato. Sorvolando sul fatto che difficilmente i Cartaginesi sarebbero riusciti a costituire un impero duraturo e ordinato come quello romano, dal quale che gli/ci piaccia o no è venuta fuori il nostro mondo. Ma possiamo anche perdonargli lo schieramento ideologico senza dubbio anacronistico che, volente o nolente, ci suggerisce dalla prima all’ultima riga, visto che stiamo leggendo un romanzo e non un testo storico – e d’altronde, questa lettura fortemente dualista di scontro all’ultimo sangue tra il bene e il male costituisce l’asse portante dell’impianto narrativo, e non solo, della storia, e in definitiva anche una delle chiavi del suo fascino. I cartaginesi sono i buoni non solo in quanto eroi senza macchia e senza paura, ma in quanto portatori di un modello di civiltà che è del tutto in antitesi con quello romano: una civiltà fondata sul commercio, sull’apertura economica, politica, culturale che è costretta a combattere non per fini imperialistici ma per garantirsi un futuro, una sopravvivenza – una civiltà che, non essendo “votata”, come Roma, alla guerra, non avendo un esercito stabile (Cartagine arruolava mercenari in tutto il Mediterraneo), ma soltanto una magnifica flotta che ben presto si rivelerà insufficiente alle esigenze dello scontro totale, è destinata per forza di cose a scomparire – in questo rivelando la sua unica, civilissima, debolezza: ovvero, l’amore per la libertà, la non-volontà a farsi specchio del suo “totalitario” nemico. Sicchè, dalla penna precisa ed immaginifica di Haefs sgorga un mondo bello e vario, esotico, lussureggiante e dettagliatissimo, aperto ad orizzonti che vanno ben oltre i confini del buon vecchio stagno di mezzo: un panorama sterminato che ad oriente si spinge fino ai regni ellenistici della Battriana, fino alla mitica Taprobane e ancora oltre, tra greci buddisti, figlie puttanelle di mercanti cinesi, eunuchi, orsi polari da guerra alla corte dei re macedoni d’Egitto; e ad ovest non si arresta neanche alle colonne d’Ercole, arriva nel nord – nel più assurdo Nord, alla Thule ghiacciata, ai cerchi di pietra dei druidi che forgiano con nel sangue spade invincibili, e nell’occidente, nel più assurdo Occidente lungo le rotte segrete degli alisei che conducono ad un arco di isole verdi in mezzo all’Oceano, ai bordi di una mostruosa massa di terra inesplorata…  E proprio in questa schizofrenica, anacronistica, irreale dilatazione del tempo e dello spazio, liberamente ispirata ai veri viaggi dei mercanti punici che quando Roma era un villaggio circumnavigavano l’Africa ed esploravano i fiordi sta il meglio di Haefs: la sua capacità insuperabile, a volte barocca, sempre stupefacente, di farci respirare un mondo davvero senza confini, a cavallo tra la storia e il fantasy. Che è pure anni luce lontano dalla truce, molle, decadente visione di Cartagine che il mondo occidentale si è impresso nella mente leggendo la Salambò di Flaubert: qui di decadente non c’è proprio niente, se non il catastrofico understatement politico dei capi cartaginesi; la scrittura palpita di energia, e con essa Cartagine, la sua flotta, i suoi commerci, le sue strade, i suoi mercati, senza più l’ossessivo pregiudizio della “sanguinarietà” per secoli attribuito alla religione punica (che al tempo di Annibale aveva ormai da tempo immemorabile messo da parte orge e sacrifici di bambini); come pure palpitano di energia i personaggi, a partire dalla voce narrante, il poliedrico mercante/banchiere greco Antigonos, che in prima persona ci fa da guida lungo tutta la complessa vicenda, evitandoci sia di smarrirci nel dedalo delle cose e delle persone che di infognarci nei tempi morti della storia “vera”.

Giganteggiano su tutto e tutti le figure dei due grandi condottieri cartaginesi, Asdrubale “Baraq”, “il Fulmine” e suo figlio Annibale: estremi difensori del loro mondo, cercano di farsene anche demiurgi, in pace come in guerra; coraggiosi, leali e soprattutto tenaci ed intelligenti (ma di un’intelligenza positiva che è l’opposto speculare di quella perfida astuzia che i Romani scornati attribuiranno loro) diventano, nella visione appassionatamente partigiana di Haefs/Antigonos, dei semidei, degli eroi da fumetto – tutto sanno, tutto capiscono, a tutto provvedono: sempre l’idea giusta al momento giusto, si tratti di sbaragliare le legioni romane, fondare una città, organizzare uno scherzo agli ambasciatori latini; sempre un passo avanti al loro  nemico, sia esso il rigido e prevedibile romano o l’astutissimo avversario politico interno, il diabolico sacerdote-mercante Annone, l’uomo che alla fine riuscirà a vanificare tutti i loro sforzi. Sì, perché ai Romani Haefs non concede nemmeno l’onore delle armi: Cartagine non ha certo perso la guerra per colpa dei suoi condottieri; sono stati i politici cartaginesi che non hanno mai voluto assecondare fino in fondo la loro genialità, o hanno addirittura coscientemente remato contro, spinti dalla loro sete di potere e ricchezza.

Li seguiamo, prima il padre, poi il figlio – perché se proprio vogliamo fare i pignoli, il libro parla in proporzione molto  più di Asdrubale che non di Annibale – in tutte le loro rocambolesche imprese, incrociandoli, tra un peregrinare e l’altro di Antigonos su e giù per i mari e le vie carovaniere, dal mare di Sicilia all’altopiano numidico durante la terrificante insurrezione dei mercenari, dalla Nuova Cartagine spagnola all’Italia invasa – per arrivare fino in fondo, alle ultime, stanche avventure del condottiero, sconfitto ma mai domato, che si rivela una volta di più nella sua intima essenza di sognatore: ovunque si trovi, Annibale cerca di sfruttare al massimo le possibilità che gli si offrono per fare del mondo un posto migliore. Ma la stupidità degli uomini, specialmente dei potenti, alla fine non gli lascerà che una sola via di fuga…

Credo di aver detto abbastanza, e forse troppo. Comunque, ve lo consiglio caldamente, specialmente al Capitano, che certamente apprezzerà tutto l’esotismo, il sangue ed il sesso di cui sono riccamente infarcite queste pagine.