Pearl S. Buck

La buona terra

Mondadori, 1995; 291 pg.

 

Ho fatto cadere un altro libro dallo scaffale – l’intenzione originale era recensire “Q”, ma già parecchi Idioti l’han letto, e non è il caso di ripetersi. Sollecitato dal caso, tento tutt’altra recensione – lettura tutt’altro che fresca nella memoria, in realtà; eppure credo proprio che ne valga la pena. Non vi tedierò con un’altra sbrodolata controproducente – questo è più che altro un consiglio di lettura.

Pearl S. Buck, scrittrice americana Nobel nel ’38, figlia e moglie di missionari, cresciuta e vissuta in Cina per buona parte della sua vita, e profonda conoscitrice dei suo angoli più dimenticati, scrive nel ’33 questo primo romanzo di successo. E’ un libro duro, a tratti perfino crudele, eppure pervaso di una vena di poesia, ora malinconica, ora perfino eroica. Eroica in tono minore, beninteso, visto che si parla solo ed esclusivamente di contadini miserabili ed ignoranti; ma la storia di Wang-Lung, costellata di rassegnati eppure incrollabili sforzi per la sopravvivenza, è un po’ un monumento all’”antica e accumulata saggezza” dei cinesi (come ebbe a definirla l’autrice), alla loro capacità di sopportazione, alla loro “profonda umanità” anche in un mondo veramente disumano, quello delle campagne dell’ex Celeste Impero del primo Novecento. E’ un momento cruciale, in cui avviene la travagliata gestazione della Cina moderna, tra rivoluzioni e controrivoluzioni; ma in quest’angolo di terra, tutti sono troppo impegnati a tirare a campare per accorgersene. Conosciamo Wang-Lung nel momento in cui sposa –compra, più che altro- la sua prima moglie: e lo seguiremo in un’esistenza di mostruose fatiche, di sconfitte continue, di attesa impotente per piogge che non vengono (con un padre vecchio e scassato da mantenere, e uno zio scroccone da salvare dai debiti); compirà scelte dolorose – dovrà uccidere il suo bue, l’unico vero condivisore della fatica nei campi, nonostante dichiari che preferirebbe ammazzare un uomo; dovrà ridursi a tirare un risciò per le strade della grande città, mentre moglie e figli mendicano nei bassifondi, affidandosi alle mense di carità; dovrà accettare in silenzio l’orrenda necessità imposta alla moglie di spezzare il collo ad un figlio appena nato, nell’impossibilità di nutrirlo. In questo inferno dove veramente la fortuna più grande per un uomo sarebbe quella di non venire alla luce, Wang-Lung, nonostante tutto, non si perde mai d’animo – e anche se le statue d’argilla, gli dei della casa, sembrano non volerlo ascoltare, non smette mai di credere al potere della terra, la buona terra cinese, che è “come la carne, come il sangue degli uomini” di sfamare gli uomini volenterosi; non perde mai nemmeno la capacità di provare sentimenti: “Potrei venderla”, pensa di una figlia piccola, “se non l’avessi tenuta stretta contro di me, e se non mi sorridesse a quel modo.”

Gli dei, alla fine, lo ricompenseranno: ricomprerà il suo campo – e farà molto di più: pezzo dopo pezzo, farà sue le terre della “Vecchia Signora”, la latifondista locale rovinata dai debiti e dalla guerra civile. Il cerchio si chiuderà quando riuscirà a comprarne anche la casa – quella casa dove aveva comprato la moglie e dove era trattato come l’ultimo dei pezzenti.

La fine, nonostante tutto, è amara: il vecchio Wang-Lung rincoglionito continuerà a predicare ai figli l’amore per la terra; ma tra le righe, capiamo che per i giovani la vita dei campi non è che un brutto ricordo, e la terra un bene come un altro, un capitale da monetizzare. Le loro storie saranno raccontate negli altri due romanzi di questa trilogia; ma non li ho letti, quindi non so che dirvi. Di certo vi consiglio questo.