Una verità banale
di John Wayne
Capitolo I
Quel giorno mi
sentivo davvero stupido, solitario e triste più del solito. La faccenda mi
infastidiva molto, poiché la sensazione stava diventando sempre più certezza,
mano a mano che procedevo con la “Settimana Enigmistica”. Fuori pioveva da almeno tre giorni e non ci
pensava neppure lontanamente a smettere. Tutto era umido e bagnato. Mi pareva
di stare seduto a quella scrivania maledetta da secoli, facevo la muffa.
Non sapevo che fare,
quindi mi misi a pensare. Alla radio passavano i Jefferson Airplane, mentre mi
rendevo conto di come la gente era pazza, o stupida, o arrabbiata. L’unica
alternativa che mi restava era quella di tenere duro fino alla fine, o almeno
fino al prossimo cliente. Erano passati mesi dall’ultimo lavoretto che avevo
fatto per la vedova Statizzati. Un fiasco notevole. A dir la verità un po’ da
fare l’avrei avuto: mi occorreva una gomma nuova all’auto. L’anteriore
sinistra.
Sarà che quel che
meno uno s’aspetta gli capita, o sarà il caso, in quel preciso istante trillò
il campanello dell’ingresso. Tolsi i piedi dalla scrivania, gettai
Nella stanza del mio
ufficio fece capolino un omino basso e consunto. Vestiva con una giacca blu e
una camicia a righe azzurre, con una adorabile cravattaccia arancio. Forse
aveva il guardaroba in tintoria. Si guardava intorno, fra le note di “White
Rabbit” e la polvere di settimane che riempivano con pari importanza il locale.
-La prego, mi dica
che questo non è il suo ufficio, ma lo sgabuzzino delle scope –disse con una
voce roca per le troppe sigarette.
-Ebbene sì, stiamo
ristrutturando il mio ufficio di trenta stanze e per ora mi sposto nel
ripostiglio. Con chi ho il piacere? –chiesi
Non rispose. Si
buttò sulla sedia dell’Ikea dinanzi a me.
-E’ alcolizzato?
–sparò a bruciapelo
-Che c’entra?
-Ogni buon occhio
privato lo è…
Sbuffai. La giornata
si profilava pesante. L’unico cliente da mesi ed era uno stronzo.
-Lei ha visto troppi
film, signore –
Alzò gli occhi al
cielo. Si cavò dalla tasca una pacchetto di Winston e ne sfilò una sigaretta.
La portò alle labbra.
-Fuma? –mi domandò
Feci cenno di no.
Lui se l’accese, inspirò, espirò una nuvola azzurra.
-Ettore Marchi,
giusto?
-In persona, il
miglior detective privato di Pavia –tronfiai
-Ettore…è così
antiquato –criticò l’ometto
-A mio padre piaceva
l’Iliade, soprattutto gli eroi che alla fine perdono: li trovava irresistibili.
-Ah –disse. Non
pareva molto colpito dalla mia risposta. Eppure a pensarci poteva essere
interessante. Solo che non avevo voglia di star lì a pensarci.
Calò il silenzio. Lo
guardai diritto negli occhi. Era un lavoro duro guardarlo. Passammo cinque
minuti buoni così, parevano un’eternità, poi m’incazzai.
-Ebbene signor…
-Pallavidino
-Pallavidino, sì,
dunque immagino che abbia qualche rogna da grattare, dal momento che è qui-
Pallavidino
strabuzzò gli occhi: -Rogna? Che vuol dire? Parla come un cavernicolo!
Rise senza che ce ne
fosse motivo. Un superspasso. Mi sentivo un po’ nervoso.
-Ho bisogno che
indaghi sul conto di un uomo –riprese -Quanto verrebbe?
-Cento al giorno più
spese, niente assegni scoperti, altrimenti le svito la testa e la uso come
portaombrelli –volevo far la voce da duro, ma me ne venne fuori una da Biscardi
coi croccanti in bocca.
-Quest’uomo –disse
mentre tirava fuori una foto dalla giacca con la semplicità di un full a poker
–si chiama Alberto Achilli, ufficialmente è proprietario della libreria “Beat
Generation” in piazza Petrarca –
Guardai la foto.
Ritraeva un ragazzo sui venti –trent’anni, moro, capelli corti, ben vestito.
-Ufficialmente?
–chiesi
-Così dice. Io sono molto ricco e non mi fido, forse mi
sbaglio e- si sporse verso di me –spero davvero di sbagliarmi. Ma quest’uomo
sta per sposare mia figlia Giovanna ed io voglio essere sicuro che….
-….che non sia un
cacciatore di dote –completai
Lui annuì –proprio
così. Desidero avere le prove documentate in merito a quel che scoprirà,
qualunque scheletro nell’armadio avesse a trovargli…
Aprii il cassetto
della scrivania e ne cavai la fiaschetta. La stappai e ingollai un lungo sorso.
-Whiskey? –chiese
Pallavidino indicando la fiaschetta
-Puro e ottimo caffè
nero, sono solo un povero caffeinomane, amico
-E’ pur sempre un
vizio –ribattè lui
La radio suonò un
pezzo di Janis Joplin. Pareva di essere tornati agli anni settanta.
-Non sa dirmi
qualcosa di più su questo Achilli? Che so…amici che frequenta, giri, locali o
altro…
-Da quel poco che ha
fatto sapere frequenta l’Osteria Sottovento in Corso Cavour. Ci va la sera dopo
le otto. Mi pare che lì conosca il batterista di un gruppo, ma non so quale
sia. Di più non so.
Mi passai una mano
sulla bocca. Stavo ipersalivando, quindi doveva essere l’ora di pranzo. Era
tempo che quell’uomo levasse le tende.
-Le farò sapere, ha
un recapito?
Mi diede numero di
casa privato, al quale avrebbe risposto solo lui, a qualunque ora del giorno.
-La chiamerò quando
ci saranno novità.
-Spero che il suo
aspetto inganni –disse Pallavidino, poi si alzò e se andò, sbattendo la porta e
senza salutarmi neppure.
Rimasi un poco a
riflettere sul significato filosofico nascosto delle sue parole. Ripresi
Capitolo II
Il giorno dopo
prometteva bene. Aprii gli occhi e notai subito che attraverso la veneziana il
sole proiettava ombre a righe sulla mia pancia. Mi alzai, mi sbarbai, preparai
del caffè e accesi la tivù. Una donna vestita secondo la moda di dieci anni
prima mi spiegava come comprare i suoi materassi mi avrebbe risolto tutti i
problemi di mal di schiena. Era sempre così: qualcuno ti dava consigli
sbagliati, nella speranza che tu dessi denaro in cambio di oggetti inutili. Se
compravi, quelli vendevano ancora di più, se non compravi tu lo avrebbe fatto
qualcun altro.
-Questa è la vita
–pensai tra me.
Bella frase. Questa
è la vita. Non me ne veniva in mente un'altra migliore. Non voleva dire nulla
in sé, ma aiutava a prenderla con filosofia quando ti sentivi triste, quando
t’accorgevi di quanto il mondo era lontano anni luce dalla tua onda di
trasmissione.
Trangugiai il caffè,
mi infilai dei vestiti non troppo sporchi ed uscii.
Il sole aveva preso
il posto delle nuvole del giorno prima, l’aria era fredda e mi sentivo
stranamente bene, euforico, ma molto probabilmente era la caffeina a farmi
quest’effetto. Ecco perché sbevazzavo tazze di caffè in continuazione. Faceva
sembrare tutto più colorato.
Recuperai l’auto e
percorsi piazza del Municipio, svoltando verso il Collegio Ghislieri. Passai
per via San Martino e arrivai fino a viale Matteotti. Il traffico di primo
mattino mi rendeva raggiante. Quando una vecchia su una citroen mi tagliò la
strada imprecai con molta tranquillità. Bisognava imparare a stare tranquilli:
l’ulcera perforante era sempre in agguato dietro l’angolo.
Arrivai in piazza
Petrarca che erano le nove circa. Posteggiai davanti ad una pizzeria e
m’incamminai verso la “Beat Generation”. La vetrina della libreria, quando me
la trovai dinanzi, mi lasciò insoddisfatto: una banale vetrina piena dei libri
dell’ultimo momento. Una scritta rossa col nome del negozio occupava la metà
superiore. Speravo di più, ad esempio un tizio tipo Allen Ginsberg che mi
invitava a provare una nuova varietà di acido.
Spinsi la porta ed
entrai: era un locale piuttosto grande, con scaffali alti fino al soffitto,
pieni rasi di libri. Probabilmente avevo letto quasi tutti i libri contenuti
nelle sezioni “classici” e “storia e filosofia”. Leggere aiuta a capire il
mondo, o almeno quali sono i libri che vanno di più.
Una bionda
appariscente sedeva dietro il bancone, accavallando e disaccavallando a ritmo
di metronomo. Forse costituiva la maggior attrazione del posto. Fingeva di
scorrere un “Guida allo Studio del Chisciotte”, ma di tanto in tanto alzava gli
occhi a controllare che nessuno si fregasse i libri. Quattro disgraziati
bighellonavano su e giù per gli scaffali, alla ricerca di un libro nuovo,
appassionante, che spiegasse loro la vita. Tutti quanti vorremmo trovarlo un libro
del genere, che ci spieghi come e cosa fare affinché si possano realizzare i
nostri sogni. Un libretto d’istruzioni, insomma.
Mi avvicinai a miss
Bionda 2005.
-Cerco “Il Grande
Sonno” di Chandler. L’avete? –domandai
Lei alzò appena gli
occhi dal libro, mi squadrò un attimo, percepì che ero solo un disgraziato e
non potevo essere il principe azzurro che aspettava da anni. Sbuffò. Non avevo
passato l’esame. Forse l’avevo delusa.
-Nella sezione
Feltrinelli, in fondo alla sala
Ci andai, trovai il
libro e tornai alla cassa. Miss Bellezza al Bagno mi battè l’articolo.
-Otto e sessanta
Pagai con una
banconota da dieci. Mentre aspettavo il resto dissi:
-Non vedo mister
Achilli, è ammalato?
-No, arriverà tra
poco
-Volevo parlargli
Lei mi elargì
un’occhiata più profonda delle altre.
-Lavora per qualche
Casa Editrice? –mi chiese. S’ era spinta
a sperare che fossi un ricco editore? A vedermi in quel momento, grasso, stanco
e con la barba di tre giorni, non mi si sarebbe detto proprietario di una pista
per biglie, ma si sa, la speranza è proprio l’ultima a morire.
-Ebbene sì. Ma non
c’è urgenza –finsi –verso che ora tornerà?
-Forse tra un’ora,
forse tra due, non lo so
-Grazie –replicai
gentile come un boy scout. Mi voltai e me ne uscii.
Mentre me ne andavo
sentivo il suo sguardo appiccicato addosso. Si stava chiedendo chi fossi e
quanto avessi in banca. Certo ero brutto, però se davvero avevo un portafoglio
bello imbottito si poteva fare.
Mi ficcai in auto,
aprii
Verso le dieci e
mezza un uomo che mi pareva simile a quello della foto entrò a passo spedito
nella libreria. Uscii dall’auto e mi avvicinai, volevo vederlo da vicino.
Mentre cercavo di guardare attraverso la vetrina lo vidi venirmi incontro ad
ampie falcate. Mi aveva già scoperto? Non sarei dovuto entrare prima, forse la
bellezza al bancone mi aveva visto. Bell’ investigatore da strapazzo. Feci
finta di guardare i libri. Achilli aprì la vetrina ed uscì. Pensai che mi
doveva aver visto curiosare. Ma mi sbagliavo: mi oltrepassò e si diresse con un
pacco voluminoso verso una Smart parcheggiata davanti alla mia. Dovevo essermi
giocato il buono con Madama Fortuna. Lo vidi avviare l’auto e muoversi verso
viale Matteotti. Mi ficcai sulla mia Punto e gli andai dietro. Ero in ballo,
ora, ero in ballo e dovevo ballare: gli avrei inchiodato i fondelli, ci
potevamo giurare!
Capitolo III
Lo seguii standogli
un paio d’auto dietro. Non era facile con il traffico di quella mattina. Non
dovevo perderlo ad un semaforo. Svoltammo a sinistra e per non prendere il
rosso accellerai di botto. Udii suoni ovattati di clacson ricordarmi la serena
indignazione dei concittadini Pavesi. Me ne fregai. Alzai il volume della
radio, per non sentirli più. Andammo giù costeggiando il Castello fino a Viale
Bligny. Poi lo vidi parcheggiare sul lungo Naviglio. Passai oltre e ficcai
l’auto nel primo buco che trovai.
Achilli passò sotto
un portico e fece cento metri. Poi sparì inghiottito da un portone enorme.
Contai fino a dieci, poi afferrai la macchina fotografica dal sedile
posteriore, uscii dall’auto e mi avvicinai.
A lato del portone
svettava sulla parete sporca di umido un citofono annerito dallo smog. Là sopra
ci saranno stati una ventina di nomi sulle targhette degli appartamenti. Era
una vecchia casa di ringhiera rimessa a nuovo. Dovevo scoprire in quale
appartamento si era ficcato il mio pedinato. Ne andava del mio onore. Oddio,
forse avrei potuto basarmi su altri parametri, ma non sapevo fare altro che
ficcare il naso nelle questioni di qualche sconosciuto. Mi piaceva moltissimo, anche se non sempre mi
riusciva.
Cominciai a
citofonare a caso.
-Si? –fece la prima
voce
-Ha lasciato una
Smart parcheggiata in sosta vietata? –chiesi
-Fatti i cazzi tuoi
– e mise giù.
Provai con
l’appartamento successivo.
- Ha lasciato una
Smart in sosta vietata?
Questa volta non mi
risposero neppure.
Al terzo tentativo
feci centro. Citofonai ad una certa Denise Molini, o almeno così recitava la
targa. Rispose una voce femminile.
-Chi è?
Dissi che stavano
rimuovendo una Smart grigio nera in sosta vietata.
-Scendo –disse
semplicemente.
Forse al citofono la
voce di Achilli aveva preso una increspatura femminile. O forse aveva
l’amichetta. Ma non dovevo saltare alle conclusioni troppo presto. Per quello
potevo starmene a casa e cercare di capire chi aveva ucciso chi a “
Mi appostai qualche
metro più in là e misi il rullino nella macchina fotografica che avevo vinto
coi punti della benzina. Passarono cinque minuti e Alberto Achilli in carne e
vestiti in disordine ricomparve al portone. Gli bastò un’occhiata per capire
che nessuno gli stava facendo alcunché all’auto, eccezion fatta per un cane che
gli stava battezzando la gomma anteriore. allontanò il cane consigliandogli di andare a morire di morte
violenta, poi girò i tacchi e rientrò.
Da dietro una
colonna del portico io, zitto zitto avevo fatto tutte le fotografie che potevo.
Mi annotai il numero civico e la via e risalii in auto.
Sintonizzai la radio
su un pezzo di Woodie Ermann e mi sentii subito meglio. Mentre guidavo verso
l’ufficio fischiettavo, mi sentivo bene anche senza troppa caffeina in corpo.
Certo, quelle foto non volevano dire alcunché da sole. Ma presto le avrei
accompagnate dal bel visino di Achilli inchiodato a mo’ di trofeo come quella
trota che avevo pescato nel Ticino l’estate scorsa. O era una scarpa vecchia?
Capitolo IV
Pranzai in un
ristorante toscano in Strada Nuova. Conoscevo il proprietario, un certo Cesco,
un tipo cazzuto che si divertiva a servire solo i clienti che gli stavano
simpatici a pelle, agli altri fregava i tergicristalli delle auto. Si faticava
parecchio a non odiarlo sin dall’inizio. Perciò il posto era sempre vuoto. Il
che mi faceva solo stare meglio: meno gente vedevo, meglio stavo. In più ero
contento per aver combinato già qualcosa. Avere tra i piedi troppa popolazione
mi avrebbe avvelenato il momento.
Mi feci una
carbonara e una coca grande, poi me ne tornai dritto dritto in ufficio. Entrai,
lanciai il cappello sull’attaccapanni, mi ficcai sulla sedia e buttai le gambe
sulla scrivania.
Cercai di ordinare
le idee, non era facile. Poco sale in zucca, sapete. Avevo fatto un passo
avanti: Achilli aveva l’amichetta. Lo sapevo, ma non potevo dimostrarlo. Avevo
delle foto che da sole non volevano dire nulla. Il cliente voleva risposte.
Anche a Passaparola le volevano. Con la tivù ci provavo ogni sera, ma non ne
imbroccavo una. Mi dovevo dedicare al cliente. E se anche lì non andava? Pensai
che potevo sempre andare a dare i numeri da giocare al Lotto. C’è sempre qualcuno
che ci casca.
Mentre ero assorto
in me pensante sentii dei colpi alla porta dell’ufficio. La mia interpretazione
della bussata era cattiva:
-Avanti –dissi
comunque
Sulla soglia apparve
prima una enorme pancia, poi un uomo. Pensai che forse le due cose erano
collegate. E lo erano. Uno a zero per Marchi. Era Riba, l’affittuario.
-Marchi! –gridò con
una voce orrendamente grassa
-Il più dritto di PV
–risposi
-Pv e che è?
-Possibili Vaccinati
–
Grugnì. Mi si
avvicinò lentamente. Forse voleva sembrare minaccioso. Ci mise un bel po’.
Prendete cinque minuti e mezzo e buttateli al vento, questo è il tempo che ci
mise ad arrivare alla mia scrivania.
-Non mi risulta
pagato questo mese –
-Ah –feci
-Ah –fece lui.
Poi calò il
silenzio. Passarono due minuti.
-Che me ne dice?
–riprese
-Che è un fatto –
Lui mi brancò per il
bavero e mi scosse. Mi sembrava di essere finito in una lavatrice a programma
rapido. Sperai che fosse per i colorati.
-Vuoi pagare o no?
Vuoi pagare o no? –gridava e mi scoteva. Avvertii distintamente le budella
scendermi nella scarpa destra, quella col buco sulla suola.
Poi dopo un po’ si
stufò. Mollò la presa e caddi sulla sedia come un sacco.
-Hai tempo fino a
dopodomani per pagare. Poi sei fuori. E se te fai il furbo ti faccio in pezzi
così piccoli che poi ti sniffo –
-“TI” fai –corressi
-Cosa? –
-E se TI fai il
furbo, non se TE fai –
Lui mi guardò come
si guarda un piccione morto sul marciapiede. Poi sputò.
-Marchi parli come
un cretino –
Si girò e attraversò
la porta.
-Sono in buona compagnia
–gli tirai dietro, nell’attimo esatto in cui spariva dalla stanza. Son molto
coraggioso, solo che lo sono quando lo voglio io.
Mi riassestai il
colletto della camicia e mi rimisi comodo. Pensai come ogni giorno la gente
cerca di farti innervosire. Fanno di tutto per renderti pessima una giornata
buona. Sono solo degli scoiattoli invidiosi, ve lo dico io. L’unica è tenere
duro, ma l’ho già detto.
Riafferrai
Capitolo V
Il giorno appresso
salì la nebbia e un umido da far spavento. Preferii andarmene a piedi fino in
ufficio. Mi sentivo stanco morto. Avevo passato la sera precedente cercando di
addormentarmi senza riuscirci. Me ne ero rimasto sdraiato sul letto ad occhi aperti,
osservando le evoluzioni delle luci sul soffitto ogni qual volta passava
un’auto. I vicini mi avevano dato materia per trascorrere il tempo. Litigavano
e poi si rappacificavano. O forse era il western sul secondo canale quello che
sentivo. In questo caso si potevano spiegare benissimo i colpi di rivoltella.
Pensai che dovevo bere meno caffè. Pensai a questo tutta notte, perciò il
giorno dopo infilarsi i vestiti mi risultò già una bella vittoria.
Sentivo che in
ufficio avrei trovato qualcuno, o qualcosa che sbloccasse la mia vita. Forse
Dio, forse il biglietto vincente della lotteria, forse la donna della mia vita.
Ovviamente mi
sbagliavo. Quando varcai la soglia trovai solo polvere e ragnatele. Aprii le
finestre e la nebbia penetrò nella stanza. Dovevo pagare l’affitto. Senza
ufficio che avrei fatto? Un detective senza ufficio non è niente, è come una
Ferrari col limitatore.
Presi il telefono e
composi il numero di Pallavidino.
-Pronto –fece una
voce all’altro capo
-Pallavidino sono
Marchi
-Novità?
-Io sto molto bene
grazie –dissi
-Cosa? Eh?
-Ho novità, voglio
dire –
-Ha bevuto Marchi?
–chiese Pallavidino col tono di chi dubita della sincerità della risposta
-Certo, poco fa,
caffè –
Si udì un respiro
profondo nella cornetta.
-Che mi dice?
–riprese
-Dico che ci sono
novità. Sto lavorando ad un collegamento, una relazione
-Che tipo di
collegamento?
-Alt –buttai lì
–Prima di andare oltre mi deve un mese di anticipo
-Cosa? Ma se l’ho
assunta l’altro ieri!
-Senta, ho dei
risultati. Se non li vuole basta che me lo dica –
-No, no, va bene,
l’assegno è già in viaggio. Che novità ha?-
Assaporai la piccola
vittoria. Feci una pausa. Inspirai. Espirai.
-Achilli ha una
amichetta –
-Ah –disse
Pallavidino
-Ah –dissi io
-E chi è?
-Le dice nulla il
nome Denise Molini?
-Nulla
-Ebbene, ne
risentirà parlare –stronfiai
-Un momento, lo può
provare?
-Non definitivamente
–
Percepii la sorpresa
nella pausa che seguì.
-Insomma, o sì o no.
Può fornirmi prove inequivocabili? –chiese
-Non ancora
-Mi chiede soldi per
un lavoro non fatto. Sta cercando di fare il furbo, signor Marchi? –ora
percepivo l’incazzatura nella sua voce.
-Ci sto lavorando.
Il lavoro non è giunto ancora ad una conclusione. La richiamerò io…
-Marchi, porco…
Riagganciai prima di
sentire quale squisitezza avesse da propormi. Presi il termos del caffè e me ne
versai una tazza calda. Ingollai il liquame nero ustionandomi la gola. Mi
sentii improvvisamente meglio. I soldi erano in viaggio. Ora percepivo il
fruscio del contante nelle mie mani. Restava ancora da risolvere il problema di
Achilli, ma questo non era in grado di fermarmi. Nulla poteva bloccarmi: ero
come il ciclista lanciato al traguardo, il quaterback verso la meta, ero….il
più superdritto della città e provincia messe assieme.
Capitolo VI
Pranzai alla
Trattoria Sarda all’angolo, abbuffandomi di fettuccine. Al ritorno mi accorsi
di essere in soprappeso di dieci chili. Doveva essere stato il caffè ad
appesantirmi così.
Arrivai in ufficio,
girai attorno alla scrivania e mi lasciai cadere sulla sedia. Probabilmente mi
addormentai o che so io. Sognai di essere al mare e faceva freddo. Viaggiavamo
di Novembre. Un tizio nuotava libero e felice, come niente fosse nell’acqua
ghiacciata. Incontrai due tizie che non conoscevo ma che sostenevano di avermi
già visto da qualche parte. Erano notevoli, glielo si poteva concedere. Dopo un
po’ mi fregarono le scarpe e sparirono.
Mi svegliai
all’improvviso. Mi ritrovai davanti una signora sui trent’anni, mora,
semibella, semitruccata, semispaventata. Stava seduta sulla seggiola al di là
del tavolo. Mi rassettai alla meglio. Mi ero sbavato sulla camicia. Presi
comunque una paura del diavolo.
-L ’ho spaventata?
–chiese
-No dannazione.
Perché non mi ha svegliato? –chiesi
Lei alzò le spalle
–Dormiva… -disse semplicemente
Mi innervosii
rapidamente.
-Beve qualcosa?
–domandai alzandomi stizzito
-No, niente alcolici
–
-Parlavo di caffè –
Fece tanto d’occhi.
Presi il termos e mi versai un tazza. Ingurgitai. Sentii le budella
riscaldarsi.
-La vedo stupita –
-Pensavo –balbettò
–pensavo che i poliziotti privati bevessero whiskey –
Alzai gli occhi al soffitto. Un’altra. Tutti
così. Pieni di stereotipi in testa e di pregiudizi. In quattro concetti appresi
alla tivù ci ficcavano tutta la loro esistenza. Altro non ci stava. Perché?
Credevamo a quello che raccontava la tivù, ma alla realtà no. Perché?
-Qual è il problema
signora….
-Marchisio. Serena
Marchisio –completò lei.
-Ok, Marchisio, qual
è il problema?
Lei accavallò le
gambe. Erano due belle gambe. Ma si sentiva che erano in imbarazzo, non aveva
l’aria di chi era avvezzo alla situazione. Doveva averci pensato parecchio
prima di venire lì da me.
Tirò fuori dalla
borsetta di finto coccodrillo una foto a colori. Me la porse.
-E’ mio marito
–sussurrò. Doveva essere sull’orlo di una crisi di pianto.
Guardai la foto. Mi
sembrava di averlo già visto. Ma forse mi sbagliavo.
-Ok, dunque? –chiesi
Lei mi gettò uno
sguardo disperato, triste. Due occhi arrossati mi chiedevano pietà. Stava per
scoppiare in lacrime, lo sentivo. Le tremava l’angolo della bocca. Mi avrebbe
macchiato la pelle strappata della scrivania. Lasciai che si calmasse.
-Perché è venuta da
me?
-Perché…perché ha il
nome simile al mio…l’ho trovata sull’elenco –singhiozzò
Sbuffai. Alla fine
la costanza e la serietà professionale venivano dunque premiate.
-No dico…perché? Che
è successo?
-Mio
marito….Gianluca…è…è…si è perduto… -
Sentivo di stare per
perdere la pazienza. Mi sporsi verso di lei.
-Signora Marchisio,
il mio cappello si “perde”. Una persona sparisce o se ne va….
Scoppiò
definitivamente a piangere. La lasciai fare. Non mi sentivo portato per curare
cuori infranti. Ero un dritto, il più duro dei duri. Almeno finchè non trovavo
uno più duro ancora. Passò un minuto e si calmò.
-Vuole che ritrovi
suo marito? –domandai. Cercavo di farla breve. Se la lasciavo imbastire la
conversazione non saremmo giunti ad una conclusione seria prima della fine del
Campionato. Ed io volevo vedere chi vinceva lo Scudetto.
Lei annuì.
-Le costerà. –
-Q-quanto? –trovò la
forza di chiedere
-Cento al giorno più
le spese. Ed ora mi dica qualcosa di più.
Lei si andava
calmando. Non piangeva più, ma veniva scossa da tremiti violenti e gli occhi
pareva due braci di fuoco. Chissà quante notti avrà perso a piangere sul
cuscino, tutto per uno che molto probabilmente l’aveva abbandonata. Ed io che
mangiavo roba surgelata davanti alla tivù da solo. D’improvviso mi sentii
vittima di una ingiustizia grandiosa.
Il marito, Gianluca
Marchisio era scomparso un bel mattino, sei mesi prima. Invece di andarsene al
lavoro s’era semplicemente dissolto, senza lasciare tracce, indizi, biglietti
d’addio.
La moglie era stata
alla polizia, ma quelli avevano altro da fare e non avevano cavato un ragno dal
buco. Così era capitata da me. A piangermi sulla scrivania. Evidentemente non
era la mia giornata. Né la mia settimana, né il mio mese, né la mia vita.
-Vedrò che ne viene
fuori, ma non le prometto nulla
Lei mi abbracciò.
-Grazie, grazie –e
se ne andò, lasciandomi il suo recapito, la foto del marito e duecento euro di
anticipo. Tutto sommato potevo rinnovare le scorte per un po’.
Accesi la radio e
beccai un pezzo rap. Non mi riuscì di capire su cosa stesse drappeggiando il
tizio, così mi ributtai sulla mia Settimana, alla ricerca di quel dannato
cinque verticale, l’Addio di Altman.
Capitolo VII
Verso le sei non
erano capitate ancora novità. Fuori la nebbia continuava a invadere le strade.
Il mio ufficio mi sembrava sempre più vuoto e triste, man mano che calava il
buio.
All’improvviso il
telefono squillò.
-Parlo col signor
Marchi? –domandò una voce al di là del filo
-In persona –
-Signore lei ha
vinto un soggiorno gratis a Lignano Sabbiadoro –
Riappesi.
Ecco dunque quello
che mi restava in mano alla fine della giornata: il Niente. Girovagavo alla
ricerca di qualcosa, ogni giorno, ogni cliente. Ero sempre indaffarato per
qualcuno che non ero io. Non davo la
caccia alla Verità ma alle verità. Le verità cui ognuno crede, non sono altro
che preconcetti sulla realtà dei fatti. Il cliente non voleva altro: riconferme
della propria visione delle cose, degli accadimenti. E se ogni punto di vista è
quello giusto solo per noi singoli, allora è meglio parlare di piccole verità
squallide. Ma tutti eravamo così.
Mi stavo deprimendo.
No, no, Marchi, mi dissi. Infilai il cappotto grigio, mi ficcai il cappello in
testa e decisi di chiudere lì quella stupida giornata vuota. Una giornata come
ieri e come domani.
Mentre camminavo
nelle vie della città più nebbiosa d’Italia pensai che stare al Mondo era
debilitante. Era una partita che sfibrava. Bisognava tenere duro fino in fondo.
La gente non faceva altro che aspettare; aspettare che qualcosa accadesse nelle
loro esistenze, qualcosa, intendo, di significativo. Cercavamo un senso. Nel
frattempo facevamo cose, vedevamo gente. Aspettare. Aspettavamo di svegliarci,
aspettavamo di tornare a dormire, aspettavamo di mangiare e poi di mangiare
ancora. Aspettavamo in fila, sull’autobus, aspettavamo di morire, di nascere.
Aspettavamo che ai serpenti sbocciassero le ali e che i topi si mettessero a
cantare gli yodel. Perché?
A casa mi preparai
un piatto di spaghetti. Mi vennero scotti e dimenticai il sale. Mi misi davanti
alla tivù nella speranza di avere informazioni su quel che dovevo fare.
Trasmettevano il Lotto. Potevo giocarci, ma decisi di non farne niente.
Me ne stavo in
poltrona a mangiare tranquillo quando qualcuno bussò alla porta.
Non feci in tempo ad
aprire che tre ragazze mi si fiondarono nella stanza. Erano le mie vicine della
porta accanto. Penso che nella vita chiunque vorrebbe averne di simili. Erano
davvero notevoli.
-Signor Marchi!
–dissero in coro –Che fa tutto solo?
-Mangio –risposi
semplicemente e mi ficcai una forchettata di spaghetti in bocca.
-Perché non viene di
là? Stiamo dando una….festicciola, sa… -e rise, le altre due le andarono
dietro. Io cambiai canale. Conoscevo le loro feste. Attiravano i guai come
miele le mosche. Avevano litigato con chiunque nel raggio di un isolato. Tranne
me. Una volta avevano cacciato un peruviano ubriaco che si era imbucato. Lui
non l’aveva presa ben e aveva sfasciato la porta a vetri d’ingresso.
-No, grazie
–replicai
Una delle tre, una
mora, si sedette sulla poltrona davanti a me. Una seconda (Lucilla credo si
chiamasse) si mise a darmi pizzichi da dietro. La terza si limitava a sorridere
stupidamente.
-Vuol darci questo
dispiacere, signor Marchi? Pensa di non divertirsi? –mi sussurrò all’orecchio
Lucilla, o come diavolo si chiamava
-No, penso di no.
Sono stanco.
-O, via, sappiamo
noi come svegliarla…. –provocò. Le altre due risero.
-E cioè?
-Lo sa….
-Avete delle grandi
quantità di caffè? –
Risero di nuovo.
Dovevo essere uno spasso. Forse potevo tentare la carriera di comico.
-E’ divertente –notò
la mora
Cambiai canale. Sul
tre trasmettevano le previsioni del tempo. Avrebbe fatto nebbia anche
l’indomani. Mi sentii annoiato.
A questo punto
scattarono in piedi e si avviarono alla porta.
-Beh, comunque, noi
siamo di là….
Grugnii. Un attimo
dopo sparirono. Finii gli spaghetti, rimisi in ordine. Su un canale stupido
andava in onda un programma stupido per persone sole e stupide che cercano
altri stupidi tramite annunci personali in tivù. Pensai che mi mancava ancora
un po’ prima di arrivare a quel punto. Questo mi fece sentire meglio. Però mi
accorsi che avevo finito il caffè.
Capitolo VIII
Fu così che mi
ritrovai a spingere un carrello alla drogheria all’angolo. C’ero solo io e
molto probabilmente il proprietario aspettava che mi levassi dalle palle per
chiudere. Sentivo di essere forse non il migliore, ma sicuramente uno dei
meglio messi. Dovevo essere il più superdritto del quartiere in quanto a
investigazioni. Solo che non risolvevo niente. In più avevo la tendenza a
crearmi molti più problemi del necessario. Comperai del caffè macinato e dei
mandarini. Mi ricordavano il Natale, chissà perché.
Tornai a casa e mi
preparai un caffè con la teiera rotta di mia madre. Mi versai una tazza e me lo
sorseggiai lentamente. Mentre sentivo scendere il calore nella gola comincia a
vedere tutto sotto un’ottica differente.
All’improvviso sonò
il telefono. Doveva essere una giornata di gran lavoro giù alla Telecom.
Risposi.
-Sì?
-Signor Marchi?
-Io –dissi
-Sono….sono Serena
Marchisio
-Ah
-Chiamavo, volevo
dire, se ci sono novità…insomma –balbettava. Balbettava e mi innervosiva.
-Signora mi ha
incaricato qualche ora fa…come diavolo faccio a…
-Sì, lei ha ragione,
mi scusi ma….mi sento così….male, sì male….non so che fare…-udii dei singhiozzi
attraversare la cornetta.
-Mi dispiace
–mentii. Non me ne fregava niente.
-Oggi ho dimenticato
di dirle una cosa…
-Dica –
-Mio marito
frequentava nel periodo prima di sparire un certo Paolo…andavano spesso al
“Jolly”, lo conosce?
-Sì. Ma il cognome?
-Non lo so, mio
marito non me lo diceva mai.
Feci una pausa.
Questa donna era veramente snervante. Inspirai. Espirai.
-Può descriverlo?
–dissi con calma
-Beh, era alto,
rossiccio, con le lentiggini. Occhi castani…una cicatrice sulla guancia
sinistra.
-Ok, vedrò che posso
cavarne. Stia bene –
Riagganciai. I
problemi si stavano ammonticchiando. Rischiavo di restarne sepolto. Ero un
dritto che non risolveva niente e mi ritrovavo una vedova inconsolabile tra i
piedi. Che dovevo fare? Però, forse, a Dio piacendo per quel giorno eravamo
giunti ad una conclusione. Ma era solo una pausa, lo sapevo. Il mattino saremmo
stati di nuovo al punto d’inizio. E così ogni mattina, ogni giorno. Avvertii
improvvisamente l’insensatezza della vita e la sua assurdità. Capivo che era giunto
il momento di andare a dormire.
Infilai il pigiama
blu e mi buttai sul letto. Mentre cercavo di prendere sonno pensai alla festa
nell’ appartamento accanto, chiedendomi se si stessero davvero divertendo, alla
fine.
Capitolo IX
Non mi restava
granchè come alternativa, se volevo veramente cavarne qualcosa. Presi la
macchina e galoppai in direzione dell’abitazione dell’amichetta di Achilli,
Denise Molini. Potevo forse sperare di beccarlo mentre suonava la grancassa.
Qualche foto in un momento come quello e il caso era chiuso e Marchi diventava
ricco, almeno per qualche giorno. Achilli aveva le ore contate e non lo sapeva.
Continuava a comportarsi come se nulla incombesse su di lui. Mentre guidavo nel
traffico pavese del mattino pensai a come possiamo campare un giorno o durare
ottant’anni, senza saperne niente. Facciamo programmi e forse non abbiamo
neppure il tempo per metterli in atto. Eravamo ridicoli. Non mi stupivo che la
gente non riuscisse a interessarsi a nulla seriamente. Non c’era da stupirsi se
ci ubriacavamo o ci davamo alle droghe pesanti. Avevamo poche alternative di
vedere una luce nel tunnel.
Arrivai in viale
Bligny e posteggiai l’auto a poche centinaia di metri dal portone. Non avevo
idea di cosa fare esattamente. Pensai di aspettare che qualcosa accadesse.
Potevo aspettare un segno divino. Ma dubito che Dio si occupasse di parlare con
me. Mi procurai un caffè lungo nel bar all’angolo, comperai una copia della
Gazzetta e mi ficcai in macchina, in attesa. Me ne rimasi semplicemente lì a
far niente. Mi ricordai di quel vecchio ciccione del portinaio del condominio
in cui stavo prima. Non faceva nulla
tutto il giorno, se ne stava seduto su una sedia e basta. Ogni tanto scacciava
i gatti che gli capitavano a tiro con una scopa.
Dopo un po’ mi
addormentai. Sognai una frotta di gatti dai colori psichedelici che mi
ronzavano attorno senza motivo alcuno. Andavano su e giù con dei manti viola,
gialli, blu, rosa, etc. Pensai che dovevano essere figli di gatti ben strani.
Ad un certo punto,
dopo un tempo non ben identificabile, mi svegliai. Giusto in tempo per scorgere
nello specchietto retrovisore un uomo scivolare fra i passanti in direzione
della rotonda. Non potevo sbagliarmi: era proprio Achilli. Camminava svelto
urtando tutti i vecchi che incontrava. Forse lo faceva apposta. Qualcosa mi
trillò nel cervello, o almeno laddove avrei dovuto averlo. Abbrancai la
macchina fotografica dal sedile posteriore e mi fiondai fuori dall’auto.
Raggiunsi a passi svelti il portone e citofonai a caso.
-Sì?
-C’è una
raccomandata –dissi semplicemente.
Udii il rumore
dell’apertura elettrica della porta. Entrai. Sulla destra dell’atrio svettava
un casellario. Trovai il nome Molini sotto l’appartamento 15. Primo piano.
Salii le scale a due
a due. Sentivo che qualcosa stava per scattare. Achilli aveva una gran fretta.
Perché? Magari era solo un caso. Poteva essere. Ma non fornicavo con i “poteva
essere”. Ero Marchi Ettore, l’investigatore più giusto di Pavia. Scusate se è
poco.
Arrivai davanti all’appartamento
15. Suonai il campanello. Nessuna risposta. Poteva anche darsi che fosse
semplicemente uscita. Comunque poteva essere l’occasione giusta di ficcare il
naso e trovare qualcosa di utile a sbloccare il corso delle indagini.
Nessuno se ne andava
a spasso per i corridoi. Tirai fuori una finta Visa e tentai lo scasso. Potevo
finire nei guai. Ma il rischio mi faceva alzare la pressione e mi rendeva
l’esistenza degna di essere vissuta. Il giochino riuscì. La porta si aprì e io
mi infilai dentro.
Richiusi e respirai
piano, con la bocca, per non fare rumore. Le tapparelle erano abbassate e il
buio copriva i mobili. Dovevo essere nel salotto. Camminai adagio, attento a
non urtare niente e a non lasciare tracce. Ero un professionista e non dovevo
creare casini. Proprio no. Arrivai ad una porta socchiusa. L’aprii, entrai.
Doveva essere la stanza da letto. Un letto a due piazze con due comodini
scialbi ai lati e un armadio enorme con un’anta aperta e una chiusa. Per il
resto niente di interesante, eccezion fatta per un cadavere sul letto. Presi
una paura del diavolo. Avvertii il cuore prendere l’ascensore e salirmi in
gola. Sudavo. Una goccia mi scese sull’occhio destro. La sensazione era quella
di stare per cagarmi addosso. Non dovevo. Cercai di calmarmi.
Mi avvicinai e la
sensazione iniziale si tramutò in certezza: si trattava di una donna. Potevo
scommetterci cinque gambe che quella era Denise Molini. Se ne stava buttata
sulla pancia di traverso, con una gamba piegata ad angolo retto. Aveva i
vestiti scompigliati e nella mano destra teneva una
Rifeci il percorso
all’indietro e pregai che nessuno uscisse nel corridoio mentre mi affacciavo all’entrata
dell’appartamento. Ripulii la maniglia con un fazzoletto e camminai a passo
svelto, ma tranquillo attraverso il primo piano, poi giù nell’atrio, infine
fuori. Respirai profondamente. Mi asciugai il sudore. Corsi all’auto e misi in
moto. Ripartii in seconda, fra le bestemmie di quelli cui tagliai la strada.
Decisi di dirigermi
all’ufficio, giusto per riordinare un po’ le idee. Mentre scartavo le file di
auto al semaforo ripensai al vecchio dei gatti. Forse aveva ragione lui a farsi
i vasetti suoi, si campava cent ’anni. Chissà se era ancora vivo. Almeno lui.
Capitolo X
Ebbene mi ritrovai
in ufficio, ancora una volta. Ma dove sarei potuto andare? Un uomo cerca sempre
di correre più veloce del suo destino, ma non trova mai un buon posto in cui
andare. Credo che tutti prima o poi nella vita vorremmo fuggire, ma la vera
questione da porsi è dove? Io non lo sapevo. Ecco perché ero inchiodato su
quella scrivania, ogni giorno, ogni settimana, fino alla fine. Alla fine di che
poi?
La stanza era piena
di niente. Girai attorno alla scrivania, mi accasciai sulla sedia e buttai i
piedi sul tavolo. Con la posta avevo ricevuto l’assegno di Pallavidino. Non
potevo lamentarmi: tutto si era svolto rapidamente. L’affitto era pagato,
almeno per quel mese.
Ma ancora mi trovavo
in un mare di guai. Un morto. Alla fine mi era capitato tra i piedi anche a me.
Perché io? Perché proprio ora? E perché sentivo quel rumore quando cambiavo
dalla seconda alla terza marcia?
Recuperai il
cruciverba del giorno prima. Ma mi ritrovai ancora ad un punto morto. L’Addio
di Altman. Sempre lì. Gira che ti rigira mi ritrovavo al “via”, come in un
tremendo gioco dell’oca. Sospirai. Gettai nuovamente
Non capivo che era
successo. Achilli era uscito poco prima che scoprissi il cadavere. Poteva
essere stato lui a compiere il delitto. Ma non potevo dimostrare nulla. E poi
perché? Perché spingersi fino al limite di uccidere? Non capivo neppure questo.
Non capivo, non
capivo niente. Mi sentii inutile e lo ero. Che dovevo fare? Ero ad un punto
morto. L’indagine si era incasinata, presto avrei avuto qualche guaio con la
polizia.
Mi sorpresi a
osservare la strada dalla finestra. Ogni tanto qualcuno scorreva nella via
fredda e sporca, senza lasciare nulla di sé. Quindi questa doveva essere la mia
vita? Camminare e basta, fino in fondo, senza sapere il senso di fare ciò, solo
e triste?
Mentre scandagliavo
il vuoto della mia esistenza il telefono squillò. Lo lasciai fare. Dopo poco
smise. Mi riscossi: intristirsi non serviva a nulla. Dovevo fare qualcosa.
Non era detto che i
poliziotti riuscissero a risalire fino a me o al mio cliente. Se Achilli aveva
fatto le cose al minimo del decente allora difficilmente lo avrebbero scoperto.
Ma non si poteva mai dire.
Dovevo comunque
avvertire Pallavidino. Sollevai la cornetta ma mi fermai. Non dal mio
apparecchio. Era meglio che non rintracciassero nulla dai tabulati telefonici
qualora….
Infilai il cappotto
e il cappello sdrucito e affrontai il freddo pavese del pomeriggio.
Camminai fino al bar
all’angolo e usai il telefono pubblico del locale.
Composi il numero di
Pallavidino e aspettai che rispondesse.
-Pronto –
-Pallavidino, sono
Marchi
-Novità?
-Notevoli, direi
-Cioè? Non si faccia
tirare fuori le parole col contagocce –
-Si ricorda
dell’amichetta di Achilli?
-Mmmh
-Bè non costituisce
più un problema
-Cioè, vuol dire
che….
-Vuol dire che non è
più in giro.
Ci fu una pausa.
-Vuol dire che l’ha
uccisa? Ammazza la gente Marchi? –riprese con una voce leggermente tremante
Questo doveva essere
il momento clou. Inspirai profondamente.
-E’ morta, ma non
sono stato io.
-E chi allora?
-Non lo so –
-Non lo sa? C’è
qualcosa che sa? La pago per scoprire la verità, ma lei non sa mai niente!
Comincio a pensare che lei sia una specie di subnormale! -gridò
Feci finta di non
sentire.
-Fatto sta –dissi
–che Achilli gironzolava dalle parti della scena dell’omicidio, poco prima che
scoprissi il cadavere –
-Immagino che però
lei non abbia delle prove, però –
Decisi di spararla
alla grande.
-Le ho depositate in
un posto sicuro –
-E che aspetta a
consegnarmele? Il caso è chiuso!
-No…io… -non sapevo
che scusa tirare fuori –ecco, preferisco aspettare che le acque si calmino un
poco…sa, con la polizia non vorrei…
Forse avevo fatto
centro.
-Non faccia il mio
nome, Marchi, o dovrà cercare lavoro in un altro universo!
-Non c’è problema,
mi farò vivo io. Non mi chiami in ufficio…. –riappesi, senza salutare. Non
sapevo più che raccontare.
Pagai la telefonata,
presi un caffè e uscii. Fuori faceva il solito freddo di novembre. Vidi un uomo
picchiarne un altro e capii che il mondo andava avanti ugualmente, senza che
noi potessimo fermarlo. Dovevo esserne felice o triste? Decisi di farla finita
lì per quel giorno con le mie sparate esistenziali esiziali e di tornarmene a
casa. Erano state dodici ore piuttosto movimentate e la partita s’era alquanto
complicata, ma io amavo complicarmi la vita.
Capitolo XI
Arrivai a casa e mi
preparai due uova strapazzate salate come il Mar Morto. Mi ritrovai di nuovo da
solo. L’affare si complicava. Con Pallavidino l’avevo sparata davvero grossa.
Ero ridotto fino al punto di mentire? Forse non era davvero più in grado di
capire fino a dove arrivava la verità e dove cominciavano le piccole verità
adattate a noi.
Me ne restai
semplicemente a riflettere su diverse cose. La mia vita innanzitutto. Stavo
andando lentamente in nessun posto, come diceva Bukowsky. Però ero rimasto vivo
fino a quel punto del gioco.
Dall’appartamento accanto giungeva rumori strani, intervallati da risate
femminili e voci maschili. Che diavolo combinavano quelle tre? E perché io
avevo sempre il ruolo dell’albero nella Grande Recita che è l’esistenza? Quanti
perché. Troppi.
Accesi la radio e
beccai un pezzo Elton John. Fissai il soffitto. L’umidità aveva creato grandi
macchie giallastre. In alcuni punti c’era del calcare. Triste momento quello in
cui un uomo si rende conto di non poter neppure mantenersi un tetto integro
sopra la testa.
Finii le uova e
rimasi seduto. La radio trasmise le previsioni meteo del giorno dopo. Avrebbe
nevicato. Per quanto mi riguardava mi era del tutto indifferente. Come troppe
questioni del resto. Ma non potevo e non sapevo fare altrimenti: continuavo a
girare su e giù per la città a ficcare il naso negli affari altrui, dovevo
preoccuparmi degli altri e dei loro piccoli sporchi trucchi e salti mortali
quotidiani. Avevo esaurito il tempo da dedicare alle mie questioni importanti.
Ecco perché ero finito a spingere carrelli in un supermercato solo, il sabato
sera. Attenti che non capiti anche a voi.
Non ero un granchè
in nulla. Vincere o perdere? Nessuno vince, qualcuno perde, gli altri
pareggiano. Un pareggiante; ecco che cosa ero.
Bella definizione. Sonò il telefono. Lasciai squillare e quando tornò
silenzio mi misi ad ascoltare le voci e le musiche che provenivano
dall’appartamento accanto. Spensi le luci e basta. Ogni tanto i fari di qualche
auto illuminavano il locale, me, la macchia d’umido, la mia solitudine. E va
beh, mi dissi.
Dovevo agire,
riscuotermi. Fare. La maggior parte di noi non fa. Ecco il dramma vero.
Buttai l’occhio
all’orologio, segnava le dieci. Forse potevo combinare ancora qualcosa in
quell’ennesima inutile giornata.
Infilai il cappotto
e il cappello e uscii. Nel corridoio si udvia un gran casino provenire dall’
appartamento delle tre ragazze. Mentre passavo accanto la porta si aprì e una
di loro, quella mora, fece capolino.
-Signor Marchi
–strillò –dove va a quest’ora?
-In giro –risposi
alzandomi il bavero del cappotto
-Perché non beve
qualcosa qui? Fuori fa freddo!
Sbirciai alle spalle
della tipa. Vedevo cuscini volare e qualche fugace apparizione delle altre due
semivestite che saltavano su e giù dal divano ribaltato
-E’….è una questione
di lavoro –la voce mi si incrinò
-Oh –disse
semplicemente lei –ma domani verrà?
-Forse –risposi
Mentre mi
allontanavo udii il suo sguardo appiccicato addosso. Scesi le scale fino al
pianterreno fischiettando un’aria de Le Nozze di Figaro. Presi una sorsata
dalla fiaschetta che tenevo nella giacca. Buon vecchio caffè. Avvertii un certo
calore psicologico salirmi dal fondo. Salii in auto e partii rapido come il
vento verso “Il Jolly”.
Capitolo XII
Il locale era una sala
biliardo da quattro soldi, sul Lungo Ticino. Parcheggiai davanti all’entrata
graffiandomi la portiera contro un albero. Espressi il mio disappunto con un
delicato ricamo di consigli di moto a luogo ed elaborate maledizioni
elisabettiane.
Entrai e una zaffa
di fritto, luoghi comuni e ascelle pesanti mi investì in pieno come un destro
di Carnera. Spinsi il cappello sulla nuca e mi avvicinai al bancone. Il barista
sembrava uno scappato di casa. Indossava una maglietta rossa e un grembiule
rosa. Aveva la faccia incavata e un unico sopracciglio. Non mi andava di
guardarlo troppo.
-Un caffè –dissi
-Niente caffè. Solo
alcolici. –mi gridò
-Un caffè e una
birra –completai
-Solo una birra –
-Amico cos’è che ti
rode? Eh? Ti hanno sbattuto fuori di casa? –domandai. Lui mi guardò strano,
come una mosca bianca. Forse avevo abbinato male la cravatta. Succede.
-Non serviamo solo
alcolici –sillabò
Feci una pausa.
Sospirai
-Dammi una coca e
una birra –dissi
Lui partì al
galoppo. Tornò dopo una quantità di tempo indefinita, ma tendente all’infinito
con un birra annacquata e una coca sgasata.
-Voglio parlare con
Paolo –gli sussurrai all’orecchio. In realtà non avevo idea di cosa cercare
bene.
-Paolo? E che ne so
io…
-Paolo, l’amico di
Gianluca –mentre parlavo feci scivola un venti verso di lui
Prese i soldi e mi
guardò. Distolsi lo sguardo. Non era per nulla simile al sogno di ogni donna.
-Paolo, eh? È al
gabbio.
-Ah sì? E che ha
combinato? Non ha fatto i compiti a casa?
-Rapina –disse il
barista –poi si voltò verso un tizio che stava facendo rotolare monetine da un
euro sul banco –Ehi amico perché non te ne vai al diavolo fuori di qui? –gli
urlò.
Sorseggiai la birra.
Era orribile.
-E del suo amico? Si
chiama Gianluca
Scosse la testa.
-Pensaci un attimo
–dissi facendo scivolare la foto che mi aveva dato la moglie e altri venti euro
–
Lui la prese, la
guardò un secondo.
-Ora che ci penso… è
un po’ che non lo vedo. Da quando hanno preso Paolo, sei mesi fa. Però si
faceva chiamare il Dritto.
Nella mia testa si
accesero i campanelli. Sei mesi. Proprio quando Gianluca Marchisio era svanito
nel nulla. Mentre il suo compagno di giochi finiva in villeggiatura.
Coincidenze? Non ci credevo, neppure in quelle ferroviarie.
-Bene, quanto ti
devo? –domandai
Pagai. Poi guardai il
barista e rovesciai la birra sul bancone, con lentezza, sotto i suoi occhi. Poi
girai i tacchi ed uscii. Le piccole
soddisfazioni di ogni giorno.
Capitolo XIII
Però, come sta
scritto in ogni pessimo libro, le tribolazioni non finiscono mai, specie per
chi desidera evitarle al massimo.
Appoggiato alla mia
Punto un cugino prossimo di Battista fumava una sigaretta. Mi avvicinai alla
macchina e tirai fuori le chiavi.
-Marchi? –domandò
gettando la sigaretta da una parte.
Grugnii
-Qualcuno ti vuole
parlare –ringhiò
-Spero sia Dio,
avrei diverse faccende da chiarire –ribattei
-Non così in alto,
signor Marchi –udii una voce alle mie spalle. Mi voltai. Una dolce bionda sui
trent’anni mi era sbucata da dietro. Non l’avevo vista. Feci un salto.
-Non mi dica che
l’ho spaventata…un duro come lei –
-Macchè…è che gli
amici non mi compaiono di notte alle spalle signorina….
-Pallavidino,
Giovanna Pallavidino –completò –Avrei qualche faccenda da chiarire con lei,
perciò se ha un posto in privato…
-Mi pare di capire
che Hulk Hogan qui –dissi indicando con un cenno del capo il gorilla –potrebbe
alterarsi se rifiutassi, vero?
-Proprio così.
–rispose Giovanna
Alzai le spalle. Che
potevo fare? Nulla.
-Andiamo a casa mia,
lì staremo in pace – Vicine permettendo, pensai.
Salimmo sulla
potente Punto e partimmo. Oddio con quel mostro seduto lì dentro ci sarebbe
voluto un autotreno, ma alla fine riuscimmo ad partire. Facemmo il viaggio in silenzio totale.
Sfrecciammo sotto le
luci della città, sonnolenta Pavia; pensai brevemente a dove stavamo andando a
parare. Se era la figlia di Pallavidino come quasi sicuramente era, allora
voleva sapere qualcosa di preciso sulle mie scoperte. Come poteva conoscermi? E
come sapeva su cosa stavo indagando? Erano belle questioni alle quali, almeno
per il momento non sapevo dare risposta.
Arrivammo sotto casa
mia, parcheggiai e scendemmo dall’auto.
-Vuol venire a
vedere la mia collezione di farfalle? –domandai sornione alla bella bionda
L’unica risposta fu
un grugnito dello scimmione. Feci strada. Salimmo le scale e sfilammo nel
corridoio. Mentre passavamo si aprì la porta fatidica delle mie fatidiche
vicine. Ne spuntò una testa. Pareva Lucilla o chi per essa.
-Oh, signor Marchi
allora…. –ma si interruppe. Doveva aver visto la bella compagnia che mi tiravo
dietro. C’è sempre qualcuno che è pronto a rovinarti l’immagine.
-Sarà per un’altra
volta –dissi e proseguii. Giovanna e Scimmia Joe mi tennero fedelmente dietro.
Aprii la porta d’ingresso ed entrammo nel mio castello enorme di due locali.
Angolo cottura compreso.
-Bella casa –esclamò
Giovanna –accogliente per un senzatetto.
Sospirai. Era un
lavoro duro. Non c’era spazio per i sentimenti. Mi buttai sulla poltrona
arancio davanti alla tivù. Spenzolai la gamba destra sul bracciolo. Aspettai
che facessero una mossa. Giovanna si sedette su una sedia di plastica di fronte
a me. Il Grande Gigante Gentile si mise in un angolo con uno sguardo truce.
Ci osservammo come
due pugili prima dell’incontro. Ognuno di noi due voleva capire quanto l’altro
sapeva, senza dirgli nulla. Era semplice. Ma io ero troppo dritto per farmi
metter nel sacco.
-Posso fumare?
–domandò la biondina, estraendo un pacchetto di Merit dalla giacca.
-No ma faccia pure –
La guardai mentre si
accendeva la sigaretta. Non era per niente male. Bionda, occhi verdi, un fisico
in cui potevi perderti. E poi sapeva davvero vestirsi. Poche donne sanno
abbinare al meglio i vestiti con le loro molteplici curve, ma questa
qua….diamine se ci riusciva. Ci si poteva smarrire per una così. Ma non io, non
Ettore Marchi, la migliore lince della città.
-Quanto sa, Marchi?
–fece, mentre emetteva una nuvola di fumo azzurro.
-Dipende, di
matematica non molto –
Lei rimase incerta
se ridere o meno. Poteva essere una battuta la mia, ma poteva anche non
esserlo. Mi guardò strano. Forse voleva esprimermi disgusto.
-So che sta ficcando
il naso per conto di mio padre nelle mie faccende private –tirò fuori
-gradirei che la
smettesse –
Accavallò le gambe.
Dal canto mio cercai di sforzarmi di puntare gli occhi in qualunque altro punto
che non fossero il petto o le cosce. Fu un’ impresa difficile.
-Può darsi –
ribattei
-Può darsi che?
-Può darsi che lei
stia prendendo un abbaglio –ero intenzionato a non sbottonarmi
Lei sorrise. Fece
male a lei e a me quel sorriso. Sapeva di qualcosa di metallico.
-Lei offende la mia
intelligenza signor Marchi. So perfettamente tutto. So che sta seguendo il mio
fidanzato. Non lo faccia semplicemente più
-Ah sì? Altrimenti
che farà? Chiamerà l’esercito? –buttai lì
Vidi l’uomo non
piccolo muovere i suoi centotrenta chili dall’angolo in cui era e venire verso
di me. Mi si piantò a due palmi dalla faccia. Tentava di farmi paura. Ci
riuscì. Improvvisamente le sue mani scattarono con una rapidità insospettabile
in un mostro del genere, e mi brancarono il collo, come due morse. Mi sollevò e
sentii mancarmi l’aria. Con la coda dell’occhio vidi Giovanna impassibile
tirare ampie boccate alla sua Merit. Avvertii abbastanza nitidamente la morte
solleticarmi il piede. Stavo morendo così? Che schifo. Davvero. Nessuno merita
di finire così. Ma forse non c’è poi tanta differenza tra morire in un letto di
seta rossa e in un angolo di strada sotto la neve. O forse sì?
-Basta così –disse
Giovanna –Direi che può essere sufficiente
La scimmia
ipervitaminica mi lasciò andare. Aspirai l’aria dalla stratosfera e tossii
forte.
Sentivo la gola
secca. Forse avevo preso freddo. Recuperai la fiaschetta dal tavolo accanto e
ingollai una lunga sorsata di caffè.
-Non…non le
interessa
-La verità? Che
cos’è poi la verità?
Recuperai la
posizione in poltrona.
-Ciò che produce
effetti, più che la realtà dei fatti, null’altro –
-Ah, e che avrebbe
scoperto? Sentiamo! –domandò in tono strafottente
-Il suo “fidanzato”
aveva una amichetta, una notevole alternativa….e forse aveva ragione suo padre
a sospettare…non trova? –questa volta sorrisi io.
Lei sbiancò. Ma in
due nanosecondi mi calò una canna sputafuoco davanti agli occhi. Era ancora il
gorillone. Non mi dava tregua.
-Oh, stai dando aria
all’artiglieria? –chiesi. Udii lo scatto di una sicura che veniva tolta.
Sentivo una certa tensione nell’aria. Poteva essere l’incertezza del momento
economico. Forse anche no.
-Fermo Santino,
lasciaci soli –Giovanna aveva ora un tono triste. Il GGG uscì silenziosamente
di scena. Silenzioso come un carro armato smarmittato. Ci ritrovammo soli. Come
tutti alla fine. Vidi una lacrima solcare una guancia di Giovanna.
-Anch’io lo sentivo.
Cosa crede? Che sia stupida? Un’ochetta viziata che si fa rigirare come vuole?
–ora piangeva visibilmente. Anche lei. Piangevano tutti quando c’ero io. O ero
molto brutto o tutti pensavano che fossi un parafulmine di fallimenti.
-Nessuno vorrebbe
esserlo, ma alla fine la situazioni sfuggono di mano, Giovanna. È il destino, o
Dio o come diavolo volete chiamarlo che ci frega. Forse sono gli altri che ci
fanno del male –
Si passò una mano
sugli occhi arrossati.
-Ha le prove di
questa…questa relazione? –domandò
Annuii –Sto
lavorando ad una relazione. Tutto si lega – Stavo mentendo e lo sapevo. Ma
questo succedeva anche in altre situazioni. La verità non esiste come Realtà
degli avvenimenti.
-Me le mostri –
-Non posso –
Lei si soffiò il
naso. Si alzò e mi venne vicino.
-Quanto tempo è che
non hai una donna? –domandò accarezzandomi i capelli e passando agevolmente al
tu.
-Non importa –
-E se invece
importasse? –aveva la voce più dolce che avessi mai sentito. Era molto che non
avevo una donna così. Era molto che non aveva donna.
Mi baciò. Sentivo il
cuore ballare le danza tribali in gola. Che stava succedendo?
La scostai da me.
-Non posso…non così
–
-E allora come? –
Mi ripulii dal
rossetto le labbra. La guardai. Faceva davvero morire. Non mi sarebbe mai più
capitata un’occasione così. Ma non era questo che volevo. Un corpo. Non solo
questo.
-Lascia perdere – mi
versai un sorso di caffè nel bicchiere.
Lei mi gettò
un’occhiata tremenda, da bestia feroce ferita nell’orgoglio.
-Non dire a nessuno
di quanto è accaduto….o altrimenti….-minacciò
-Sì, lo so, Ciccio
Bombo mi ridurrà ad un frullato…vecchia storia –sospirai. Erano tutti così
prevedibili alla fine. Forse anch’io lo ero alla fine.
Si avvicinò alla
porta e mi guardò.
-Addio…o
arrivederci, se dovessi ripensarci….saprei ricompensare quelle informazioni –e
sparì.
Venne il silenzio.
Andai in cucina e mi preparai due tazze di camomilla. Dovevo calmarmi.
Poi mi gettai
letteralmente sul letto e rimasi con gli occhi aperti a fissare il soffitto,
ancora una volta. Pensai a come certe serate capita tutto quello che non t’è
capitato in tre anni, concentrato. Mi ricordai di quella volta che mi ero
scolato un succo di frutta concentrato ed ero stato male due giorni. Morale: i
concentrati, di succo di frutta o
avvenimenti, fanno male, molto male.
Capitolo XIV
Alla fine mi
addormentai e sperai di non risvegliarmi più. Aprii invece gli occhi, una volta
di più. Fuori pareva fare un freddo da assiderare i pinguini e tirava un vento
impressionante. Sentivo sbattere le persiane sulla finestra. Guardai la
radiosveglia: le otto. Avevo davanti un’altra giornata tremenda. Tremenda e
lunghissima. Ma tutta la vita era così. Non ci potevamo fare niente.
Accesi la tivù e
feci finta di ascoltare il telegiornale. Misi su il caffè e mentre aspettavo
che salisse tentai di progettare uno o più sistemi per diventare ricco. Una
volta raggiunto il miliardo di conto in banca, avrei potuto smettere con quella
vitaccia. O forse non c’era una reale possibilità di fuga, potevamo solo
cercare di correre più rapidi degli eventi. Ma prima o poi ci saremmo dovuti
fermare a riprendere fiato o a fare benzina e allora ci
Finii la colazione e
mi calai nei vestiti del giorno prima. I pantaloni avevano bisogno di una
stirata. Mi avviai verso l’ufficio a bordo della mia potente automobile. Poi
intravidi una possibilità di fare qualcosa di costruttivo per quel giorno.
Potevo dedicarmi al caso della Marchisio e sperare di cavarne fuori informazioni
credibili. Potevo battere la pista della rapina alla quale aveva partecipato
l’amico. Feci dietrofront ad un incrocio, fra il sommo disappunto dei pavesi
che mettevano in dubbio la reputazione di mia madre.
Parcheggiai in viale
Matteotti e mi diressi verso
Salii delle scale e
arrivai al bancone del bibliotecario. Una moretta snella stava lavorando al
computer. Non portava gli occhiali e la cosa mi parve strana. I bibliotecari
non portava lenti? O forse stavo cadendo anch’io negli stereotipi? Mi
avvicinai.
-Buongiorno –dissi
schiarendomi la voce –volevo consultare i quotidiani di circa sei mesi fa
La bellezza al bagno
mi squadrò. Anche a lei non andavo a genio. Mi ricordava una tipa con cui ero
stato tempo addietro. Secoli addietro. Aveva sempre il fiato che puzzava di
birra e sigarette. In più tirava spesso in ballo vari personaggi del presepe di
continuo.
-Sezione C, dietro
lo scaffale troverà anche un tavolo –parlava con una voce stridula. Non mi
fissava negli occhi, ma in un punto sulla mia testa, come se non fossi stato
lì, ma tre metri dietro.
Ringraziai e mi
diressi alla zona indicatami. Come parlo bene, se mi ci metto d’impegno.
Seduti al mio stesso
tavolo c’erano tre studenti con lo sguardo impegnato. Due scrivevano. L’altro
ogni tanto alzava lo sguardo con disappunto contro qualcuno di imprecisato e
storceva la bocca. Pareva uno svitato.
Scartabellavo da una
buona mezz’ora i giornali della provincia alla ricerca di articoli che
parlassero della rapina, quando il tizio strano mi fissò.
-Sst –fece –amico
Feci finta di
niente.
-Ehy, amico –riprese
-Che c’è? –chiesi
-Come ti chiami?
-Che te ne frega? –
Mi guardò
meravigliato, come se gli avessi rivelato un segreto industriale sul moto
eterno.
-Stamattina hai
parcheggiato una fiesta rossa davanti al Cravino, vero?
-No, ti sbagli –e
ripresi a leggere
Lui mi tirò un pezzo
di carta.
-Ehi, che diavolo ti
prende? Ti hanno buttato fuori dall’appartamento? –feci indispettito
-Ti chiami Sardelli?
Sei tu? Eh? –afferrò una matita e mi indicò con la punta.
-Amico, piantala, ho
il porto d’armi –
-Sardelli sono io
–rivelò
-Ti credi simpatico?
-Hai una fiesta
rossa?
Aprii la giacca e
mostrai la mia vecchia amica
-Andiamo a parlarne
fuori? –domandai
Lui non replicò. Si
calmò di botto e riprese a leggere il suo libro. Non s’azzardò nemmeno ad
alzare gli occhi. Perché bisognava far la voce grossa per stare cheti? Se davi
fastidio a Marchi finivi nei guai, era semplicissimo.
Alla fine trovai un
paio di articoli di fondo, nella cronaca cittadina. Parlavano di una rapina ad un ufficio postale
finita male: c’era scappato il morto, un impiegato. I ladri, due, erano fuggiti
con l’incasso, circa due milioni di euro. La polizia ne aveva catturato uno,
tale Paolo Mantegazza. C’era una fotografia e poteva benissimo essere il mio
uomo. Gli inquirenti davano la caccia al complice e ne avevano tracciato
l’identikit.
Quando vidi
l’immagine restai senza fiato. Era lui, Gianluca Marchisio, non c’erano dubbi.
L’avevo beccato. Fotocopiai l’articolo e le foto.
Potevo finirla lì,
avevo trovato le informazioni che mi occorrevano. Tornai dalla mia vecchia
compagna di giochi la bibliotecaria.
-Trovato quello che
cercava? –domandò senza staccare gli occhi dal monitor del computer
-Che fa stasera?
–domandai
-Cosa?
-Volevo dire, ho
trovato tutto –
Mi gettò un’occhiata
di commiserazione. Chissà se aveva un uomo. Magari le piacevano i giochetti
perversi, quelli con la frusta. Mi dava l’idea di….ma mi fermai in tempo: altro
luogo comune nell’immaginario comune. Il sadomaso in una bibliotecariuccia.
Povero Marchi, allora la tivù aveva preso anche te? Ti aveva raggiunto il
livello medio della gente?
Uscii dalla
biblioteca con una gran voglia di compagnia e di caffè. Uno dei due sapevo dove
trovarlo.
Capitolo XV
Tornai in ufficio
con la netta certezza di trovarci qualcuno. Mi sbagliavo. Spalancai la porta e
ritrovai il nulla laddove l’avevo lasciato: sulla sedia. Nessuno. Mi rimisi
nuovamente dietro la scrivania, stappai la fiaschetta e buttai giù una robusta
dose di caffeina. Quante volte avevo ripetuto quei gesti? Migliaia di volte? E
quante ancora me ne restavano prima di farla finita con quel teatrino ambulante
che è
Accesi la radio e
beccai un pezzo degli Everly Brothers. Mi misi a pensare: qual era la mossa
successiva corretta? Dove dovevo concentrare i miei sforzi? Dovevo almeno
informare
-Pronto? –fece una
voce di donna
-Signora Marchisio?
Sono Marchi
-Oh…oh dica pure
Mi schiarii la voce.
Inspirai, espirai.
-Ho delle novità
La sentii fremere
fin nella cornetta.
-Che tipo di novità?
Importanti?
-Eh…abbastanza.
-Mi dica tutto –
-No, non al telefono
almeno
-Dove allora? La
prego cerchi di capire…
La vocetta della
donna mi innervosiva sempre più. Era dura non mettere giù. Udii un singhiozzo.
-Vediamoci al Bar
Italia, giù in P.za Botta, lo conosce?
-Vedrò di trovarlo
–disse e mise giù.
Rimasi con la
cornetta in mano. Nessuno salutava più a ‘sto mondo.
Buttai i piedi sul
tavolo. Doveva cercare di pensare alle parole migliori da usare per comunicarle
che suo marito era un criminale, molto probabilmente uccel di bosco per sempre.
Era dura. Parole. Sempre quelle. Sempre tra i piedi, per quanto stretti li
tenessi. Tutte le relazioni sociali si basano sulle parole. Orribile. Magari
pensiamo tutto il male possibile ma se usiamo le parole corrette ci cadono ai
piedi. Un altro esempio di apparenza. E come possiamo venirci incontro? È
impossibile esprimere i sentimenti con le parole, altrimenti non pagheremmo
degli scrittori per leggere quello che ci gira dentro: loro riescono un poco meglio a descriverci.
Sonò il telefono. Al
terzo squillo tirai su.
-Seeh?
-Ti mischierò le
ossa, maledetto bastardo –disse una voce venata di follia
Buttai giù. Aveva
sbagliato numero? La maggior parte di noi sbaglia numero prima o poi, è
inevitabile.
Mi alzai, mi infilai
la fondina e tirai fuori la vecchia sputa pillole: poteva servire. Ultimamente
non mi sentivo troppo con le spalle coperte. Avvertivo un distino prurito fra
le scapole, specie nei luoghi affollati. Buttai un’occhio al finto Rolex: erano
trascorsi venti minuti, meglio muoversi.
Capitolo XVI
Arrivai al bar in
cinque minuti. La signora Marchisio non era ancora arrivata. Mi sedetti ad un
tavolo e ordinai una coca cola in lattina. Il cameriere era un ciccione senza
espressioni facciale. Indossava una maglietta macchiata con la scritta: “Mi
piacciono le donne che cantano; Si
Un uomo e una donna
sedevano al bancone. Dall’aria afflitta che avevano, dovevano essersi
conosciuti per annuncio sul giornale, tipo cuori solitari. Erano sulla
cinquantina buona, anzi cattiva. Ecco come ci si riduce alla fine se non si
presta attenzione alle mosse. Ma quali erano i passaggi che avevo svaccato io?
Ci pensai su mentre mi giungeva la coca. Guardai il ciccione: mi era andata ancora
bene, considerai. Ma non bastava. Perché
eravamo tutti paralizzati dalla solitudine? Ne avevamo un terror panico. A ben
guardare tutte le nostre azioni erano improntate ad evitare di rimanere soli. I
soldi, un lavoro ben pagato, gli studi: tutte manovre per assicurarsi
conoscenze e compagnia. La paura.
Anch’io ne avevo
paura, terrore. Ero solo e mi sentivo solo, che forse è peggio. Ma non l’avevo
scelto io, non c’era nulla che potessi davvero fare per uscire dal problema.
Guardai i due seduti al bancone: lei si sorreggeva la testa con un braccio;
sorrideva debolmente. Lui agitava le mani, gesticolava. Le stava raccontando
tutto il niente che popolava la sua vita, cercando di farla ridere. Ogni tanto
annuiva con il capo. Eccoli lì. Ma alla fine anche noi eravamo conciati così.
Alzai il braccio per
chiamare il cameriere, nel medesimo istante in cui mi giunse una voce potente
dalle spalle:
-Marchi Ettore?
-No sono suo
fratello Ephram –risposi
Due uomini si
sedettero al tavolo. Uno era un biondino con un tic all’occhio destro. L’altro
era il mio vecchio amicone Alberto Achilli. Molto probabilmente ero di nuovo
inguaito.
-Chi siete?
–domandai con finta ignoranza
Si limitarono a
sorridere.
-Credo proprio
–disse Achilli - che non ci sia nessun bisogno di fare le presentazioni –
Arrivò il cameriere.
Ci squadrò lungamente.
-Una coca –dissi
Lui rimase lì,
immobile. Fissava gli altri due. Forse era programmato per prendere ordinazioni
dai nuovi arrivati, senza eccezioni.
-Che cazzo ti
guardi? –disse brusco l’amichetto di Achilli
Il ciccione non fece
una piega. Non accettava rifiuti.
-Se ci tieni a
continuare a respirare con quel lardoso naso ti consiglio di evaporare –poetò
Achilli. Quello finalmente girò i tacchi e se ne andò.
-Ebbene –mi guardò
–io e lei abbiamo qualche chiacchiera da fare in privato –
-E se avessi altro
da fare, bello? –
Avverti lo scattò
del serramanico e la punta premere contro la mia pancia.
-Non fare il furbo,
brutto cesso –sussurrò il biondino
-Brutto cesso? –
-Non hai mai vinto
nessun concorso di bellezza, no?
-Non recentemente -ribattei
-Andiamo fuori. Se
fai la mossa sbagliata ti opero sul momento –disse Achilli
Lasciai due euro sul
tavolo per la coca e mi alzai. Arrivammo alla porta. Il ciccione stava portando
la seconda coca al tavolo, ci vide e ci corse dietro.
-Ehy, amico, questa
non l’hai pagata –
Non fece a tempo a
finire la frase. Un destro potentissimo del biondino gli affondò nel grasso e
penetrò di qualche metro nella pancia. Pareva fosse un cazzotto al rallenty:
non finiva più. Il falso magro si piegò sulle ginocchia col rombo di un tuono.
La coca volò sul pavimento frantumando il bicchiere.
-Se qualche altro
stronzo vuole venire a fare storie gli rifaccio il buco del culo –gridò
agitando i pugni il biondino. I due al bancone tacquero.
Stavolta stavo
davvero rischiando grosso.
Capitolo XVII
Salimmo su una Panda
verde parcheggiata in seconda fila. Non era l’auto che avevo visto guidare ad
Achilli. Il biondino si mise al volante, Achilli si sedette sul sedile
posteriore con me accanto. Continuava a puntarmi il coltellino contro.
Partimmo e infilammo
viale Matteotti e puntammo verso il Policlinico. Sfrecciammo nel traffico del
pomeriggio. Il sole era divenuto un disco sanguinante che affondava lontano,
all’orizzonte. Pensai alla signora Marchisio. Chissà se arrivando e non
trovandomi si sarebbe insospettita. Magari avrebbe chiamato qualcuno. Ma chi?
Nessuno poteva essere sulle mie tracce se non per causarmi guai.
-Dove stiamo
andando? –domandai.
-Amico meno ne sai,
meglio è per te –rispose il biondo
-Per che ora saremo
indietro? Ho un appuntamento –
Achilli spinse la
lama più forte. Avvertii del dolore.
-Non so neppure se
ti facciamo tornare indietro –mi sussurrò con rabbia nell’orecchio.
Tacqui. Allora ero
davvero nei guai. Coloro i quali mi volevano fare il culo di brutto mi avevano
raggiunto molto prima di quelli che potevano aiutarmi. Succedeva spessissimo
nella vita. Perché? Non lo sapevo. Riuscivo solo a preoccuparmi per me stesso,
per la mia misera esistenza, che ora non mi sembrava più tanto misera: la amavo,
ne andavo pazzo. Ora come ora desideravo soltanto tornare a casa e sdraiarmi a
osservare il soffitto. Prima lo facevo di continuo e non ne potevo più. Ora non
mi importava più di trovare un senso alle cose, solo di sopravvivere.
Uscimmo dalla città
attraverso viale Brambilla. I ritrovammo sulla statale dei Giovi. Percorremmo
qualche chilometro e svoltammo per una stradina. Il buio era sceso rapido.
Mancava una settimana alla fine dell’anno. Faceva freddo e io rischiavo grosso
per qualcosa che neppure sapevo.
La macchina si fermò
in mezzo al nulla, verosimilmente in un campo fangoso.
Rimanemmo in auto.
Achilli ritirò la lama. Mi guardarono tutti e due. Stavano aspettando qualcosa.
Poi Achilli parlò per primo:
-Immagino tu sappia
perché ti trovi qui –
Feci finta di
pensarci su –No, non lo so, ricordamelo un po’ –
-Quanto ne sai di
tutta la storia? –domandò
-Non ne so nulla –ed
era proprio vero. Il bell’ investigatore superdritto che non sapeva scoprire
niente
Achilli sorrise –So
che mi hai seguito, un po’ di giorni fa. So anche che hai ficcato il naso nelle
mie faccende. Ora voglio capire quanto ne sai.
Mi agitai un po’.
Non dovevo fare errori.
-So un po’ di affari
che ti riguardano. So molto su di te e sulla tua amichetta, quella che ora se
ne sta distesa nell’obitorio del San Matteo. Posso diventare molto pericoloso
–il mio era tutto un bluff clamoroso, ma dovevo tentarlo per uscirne.
-Ooh… -fece Achilli
–e cosa ti dice che ti lasceremo in giro, ora che puoi combinarmi tutto questo
casino?
-Il…fatto che…ho
scattato delle foto di te con Denise –era una sparata alla cieca. Non avevo
ancora potuto dimostrare che Achilli fosse stato coinvolto davvero con
Dall’espressione di
Alberto intuii che dovevo aver fatto centro.
-Cosa? Foto? Dammele
subito –disse. Pareva agitato.
-Col cavolo. Così mi
peli il sedere –ribattei –e comunque non le ho qui con me –
-E dove le tieni?
Non risposi.
-Peliamo lo stesso
–intervenne il biondino –morto lui, chi le tirerà fuori? –
-Potrei averle
consegnate a qualcun altro –replicai con estrema tranquillità.
-Ehy stronzo, ti
faccio a pezzetti se parli ancora –fece il biondo
-Zitti –gridò
Achilli –devo pensare –
Poi rimase solo il
silenzio. Io e il biondo ci guardavamo negli occhi. Achilli si massaggiava le
tempie e fissava il pavimento della macchina. Trascorsero così tre minuti che
parvero un’eternità. Come sempre in questi casi.
-Bene –disse Achilli
alzando la testa –tu ora vai con lui e lo fai parlare. E vediamo di tirarne
fuori qualcosa –
Il biondo aprì la
portiera con un calcio. Mi tirò fuori e dietro di me venne Achili.
Dalla giacca del
tirapiedi spuntò come un fungo una vecchia rivoltella a tamburo.
-E quel ferro da
stiro dove l’hai tirato fuori? –scherzai
-Controlla se è
armato –suggerì Achilli mentre si accendeva una sigaretta con un accendino a
forma di penna.
Mi perquisì e trovò
la mia scaccia cani. Ora ero davvero nudo. E nei guai.
-Avanti –disse
spingendomi. Vidi la sigaretta di Achilli colorarsi di rosso nel buio.
Dovevo agire o sarei
finito a concimare la risaia. Odiavo il riso, mi ricordava la malattia.
-Ehy, parliamone,
perché no? –mi voltai verso il biondino.
Lui mi colpì in
pieno volto con il calcio della pistola. Caddi a terra. Afferrai un pugno di
terriccio e glielo scagliai dritto negli occhi. Accadde in un attimo. Mentre si
portava le mani al viso lo caricai e lo buttai a terra. Afferrai la rivoltella
e gli restituì la cortesia sul cranio. Dovevo averlo stordito. Puntai contro
Achilli. Dalla sorpresa gli cadde la sigaretta
di bocca.
-Mani in alto o ti
faccio un buco che ti ci passeranno in mezzo le renne di Babbo Natale! –gridai
Mi tirai in piedi.
Senza perdere d’occhio Achilli aprii la portiera e controllai che ci fossero le
chiavi. C’erano. Recuperai la mia fida 9mm. Saltai sulla Panda e accesi il
motore.
-Dove pensi di
andare? –gridò Achilli –ti troveremo ovunque tu vai –
-Vada –corressi
-Marchi sei un
povero svitato –mi tirò dietro mentre mi allontanavo a tutta birra.
Dopo un po’
recuperai
Decisi che per quel
giorno ne avevo avuto abbastanza e andai dritto dritto a casetta, a fissare il
soffitto senza ricercare particolari sensi alla esistenza.
Capitolo XVIII
Il mattino dopo fui
svegliato da dei colpi fortissimi alla porta. Sembrava dovessero tirarmela giù.
Pensai fossero Achilli e il suo gorilla venuti a riempirmi le mutande di sabbia
per lo scherzetto della sera precedente. Balzai dal letto e mi infilai un paio
di pantaloni di velluto e righe spesse. Agguantai la pistola e controllai fosse
carica. Mi avvicinai alla porta e aprii di colpo.
La signora Marchisio
fece un salto di quattro metri o giù di lì. Gridò pure. Scartò di lato e cercò
di fuggire.
-Silenzio, taccia
per favore –tentai di bloccarla e mi riuscì a malapena prima che infilasse
correndo le scale del pianerottolo.
-Venga dentro, ma
per favore non gridi –le suggerii. Non mi andava di svegliare i vicini. Magari
poteva venirne fuori un ennesimo guaio.
Si lasciò condurre
dentro. Visibilmente era ancora scossa. La feci sedere su una sedia della
cucina. Misi su del caffè e recuperai una camicia dal mucchio di vestiti sul
divano.
Accesi la radio.
Passavano un pezzo di De Andrè.
-Mi scusi per prima
pensavo fossero…degli amici miei –dissi
Lei si contorceva le
mani in grembo. Fissava i miei piedi. Pensai che forse avevo un buco nelle
calze.
Il caffè salì.
Versai due tazze e ne portai una alla mia cliente. Cambiai stazione alla radio.
Beccai delle previsioni meteo. Avrebbe nevicato.
-Ieri non è venuto
all’appuntamento e ho pensato di trovarla qui, visto che in ufficio non c’era.
Ho trovato il suo indirizzo sull’elenco –pronunciò queste parole senza tono di
rimprovero. Mi guardò.
-Ah, già…vede la
faccenda è che….-le fissai negli occhi. Dopotutto era una bella donna. Non ebbi
il coraggio di negarle delle novità –vede non sono venuto perché ho dovuto
seguire una pista che collega delle persone con suo marito e…
-Dice davvero?
–aveva assunto uno sguardo speranzoso –Ha scoperto qualcosa di nuovo?
-Beh…diciamo che
varie cose si legano –
Finii il caffè e
poggiai la tazza sul tavolo della cucina. –Altro caffè? –le domandai
-Grazie, no –
Recuperai la
caffettiera dal fornelletto e mi versai un’altra tazza.
-Suo marito risulta
implicato in una rapina –buttai lì. La mia frase sapeva molto di azzardo più
che di certezza, poiché non avevo uno straccio di prova.
Lei sbiancò. Si
prese la fronte fra le mani.
-Lo sapevo, lo
sapevo…. –sussurrò scotendo il capo
-Lo sapeva? –
-Sapevo che quel
Paolo non poteva essere che un poco di buono. Stavano preparando qualcosa quei
due. Si incontravano spesso la sera. Mio marito usciva senza dirmi dove andava,
quando sarebbe tornato….Dovevo immaginarlo –cominciò a singhiozzare
Non la sopportavo
più quella donna. Era dura non sbatterla fuori. Non faceva che piangere. Mi
ricordava una amica di mia madre che piangeva anche quando era felice. Sono
persone strane quelle che piangono sempre. Non si sa mai per quale ragioni lo
facciano. Non sono indicativi i lacrimosi che sgorgano loro all’improvviso:
sono davvero così emotivamente fragili? Fingono per attirare l’attenzione? Non
lo sapevo.
-Signora senta, ora
è meglio che mi lasci lavorare. In pochi giorni potrò farle sapere di più. Si
fidi di me –
-Mi
scusi…-singhiozzò
Mi alzai e la
accompagnai alla porta.
-Allora mi farà
sapere, vero? –
La guardai. Aveva
gli occhi rossi. Si soffiò il naso con un fazzoletto.
-Certo…certo,
arrivederci –e chiusi la porta.
Mi sentivo strano.
Non sapevo più dove stavo andando a finire. Avevo perso la rotta. Non sapevo
più chi fosse esattamente mio cliente e chi no. Qualcuno mi stava attaccato al
culo per questioni che non capivo e non sapevo, temendomi per per motivi che
erano totalmente un bluff. Ognuno di noi stava facendo un sacco di sporchi
trucchetti e una miriade di salti mortali per acchiappare un infinito
grandissimo nulla. Era davvero una questione spinoso.
Mi infilai la giacca
e il cappello. Indossai il cappotto e decisi di uscire. Dovevo mettermi in
contatto con Pallavidino, giusto per comunicare le ultime. Sapevo che dovevo
girare al largo dall’ufficio almeno per un po’: Achilli poteva decidere di
venire a trovarmi con un po’ dei suoi amichetti.
Camminando per il
corridoio passai davanti alla porta delle mie vicine. Stranamente non si
sentiva volare una mosca. Indugiai un attimo. Bussai. Giusto per sapere come
stavano. Magri per avere solo un miraggio di compagnia. Ogni tanto ci vuole,
davvero. Non si può pensare di stare sempre soli e sperare di tirare molto a
lungo.
Nessuno venne ad
aprire. Bussai ancora una volta. Niente. Mi allontanai a lunghi passi,
calcandomi il cappello. Anche per oggi Qualcuno aveva deciso di lasciarmi da
solo.
Capitolo XIX
Dovevo girare alla
larga dal mio ufficio e in più riempirmi la pancia di cibo. Ecco perché presi
la decisione di andarmene dritto dritto al ristorante toscano di Cesco.
Arrivai verso l’una.
Mi sedetti e ordinai una pizza margherita e una coca. Nel locale non c’era
nessuno degno di nota. Due uomini grassi mangiavano una bistecca al tavolo
accanto. Ridevano sguaiatamente ad ogni parola. Conoscevo il tipo: sulla
cinquantina, un lavoro che rendeva bene, una moglie soprappeso che non faceva
nulla di particolare, un’amante da cinquemila euro al mese, una BMW, due figli
destinati a perpetrare gli orrori paterni. Di padre in figlio, di generazione
in generazione ripetevamo sempre gli stessi errori stupidi. Perché? Non aveva
senso.
Una donna con tre
chili di fondotinta mi fissava dall’altro capo della sala. Ruminava in modo
osceno grandi forchettate di insalata. Era una bella donna, ma aveva un’aria
così ottusa. Sembrava una cerebrolesa. Non riusciva a smettere di fissarmi.
Mangiava, beveva, si passava il rossetto tutto senza mai staccarmi gli occhi di
dosso.
Pensai che fosse
stupida. Ma forse mi faceva comodo giudicare lei e tutti gli altri solo perché
così potevo nascondere al meglio le mie insufficienze. Mi barricavo in una
stanza e non volevo saperne del mondo la fuori.
Arrivò Cesco con la
pizza.
-Che fai Marchi? –mi
domandò
-Aspetto che si
metta a piovere –
-Guai?
-La vita
-La vita,eh… -e si
girò sparendo nelle cucine.
Tagliai la pizza e
mangiai. I grassoni al tavolo accanto scoppiarono a ridere. Uno dei due
rovesciò la birra sul tavolo e per terra si formò un lago. Arrivò Cesco
bestemmiando in tutte le lingue e tirando in ballo un po’ di profeti della
Bibbia.
Mentre mangiavo
cercai di fare mente locale sui casi miei. Tirai fuori la lista:
-trovare notizie su
Achilli e verificare che Achilli sia veramente Achilli. Riferire Pallavidino
-trovare marito
sig.ra Marchisio
Aggiunsi un terzo
punto con la penna che tenevo sul taschino:
-evitare di farsi ammazzare
da Achilli
Non riuscivo a
capire perché Achilli tenesse tanto a tapparmi la bocca. L’unico motivo valido
a giustificazione lo vedeva coinvolto nella fine della sua amichetta,
direttamente o indirettamente. Poteva averla fatta uccidere. Ma perché? Forse
lo ricattava. Ma Giovanna sapeva della tresca. O almeno così diceva. L’unico
apparentemente all’oscuro era Pallavidino. Ma strombazzare tutto a lui sarebbe
equivalso a mandare a monte i piani di Achilli. Perché però Giovanna accettava
un simile compromesso? Era ricca, che interesse poteva avere a legarsi ad un
tipo così? Probabilmente era stata lei a raccontare ad Achilli che lo
seguivo. Perché? Non lo sapevo. Non
sapevo neppure cosa stesse dietro alla morte della Molini. Per esempio, tutta
la faccenda dei Pallavidino era collegata alla sparizione di Marchisio? E come
aveva fatto Giovanna a trovarmi al biliardo quella sera? Non sapevo neppure
questo. Ero un superdritto che non risolveva nulla e in più rischiava la buccia
per delle prove che non aveva. Ero un fallito. Avrei dovuto ascoltare mio padre
quando mi consigliava di collezionare bottiglie vuote. Forse sarei dovuto
rimanere al mio paese e sposare la figlia del dottore. Ma il mio medico aveva
solo un cane. Era stata una scelta obbligata.
Scrissi i nomi dei
personaggi coinvolti sulla lista del caso e li scarabbocchiai un po’.
-Amici tuoi? –disse
una voce davanti a me.
Alzai lo sguardo e
vidi la ruminante che indicava il foglio scritto.
-No, mi diverto a
inventare nomi. Lo faccio per la televisione –
-Potevi inventarne
di migliori, allora –ribattè sedendosi –Mi chiamo Alda
-Roger – e bevvi un
sorso di coca
-Sei inglese?
–domandò mentre si metteva del rossetto color ciliegia
-No –
-Allora perché
questo nome?
-A mia madre piaceva
da matti Roger Rabbit –
Lei rise. Dovevo
risultarle simpatico
-Sei divertente –
-Me l’hanno già
detto –
-Che lavoro fai?
–domandò
-Te l’ho detto,
invento nomi –
-Ma và! Scommetto
che fai qualcosa tipo…idraulico –
Sentivo che stavo
per perdere la pazienza. Continuavo a trovarmi tra i piedi queste persone che
non avevano nulla da dirmi e che non faceva altro che procurarmi scocciature.
Dovevo cambiare dopobarba.
-Puoi non credermi.
Stanotte ne piangerò ma credo di potercela fare a sopportarlo –
-Non sei un campione
di buone maniere –disse e pescò un pacchetto di sigarette da una borsetta rossa
che si tirava dietro. Prima non gliel’avevo vista. Arrivò Cesco come un
fulmine:
-Ehi, befana, qua è
vietato fumare –le gridò
-Va a riempirti il
culo di sabbia! –rispose lei
La guardai.
-Neppure tu sei mai
stata a Oxford –
-Mi trovi attraente?
–sparò a bruciapelo
-Non tanto –le
risposi
-Come butta la tua
vita sessuale? –
-Chi se ne frega?
-Perché non abbassi
le armi e ti apri un po’, bello? –ora si stava sporgendo verso di me. Prese un
pezzo di pane dalla cesta e lo mangiò. Ruminando ovviamente. E fissandomi.
-Sarebbe una
sciocchezza, temo –
-Forse perché hai
avuto donne sbagliate –
-Forse sì –
-Io potrei volerti
bene, davvero –
Ne avevo abbastanza.
Mi alzai e andai a pagare. La piantai lì a fissare il mio didietro, almeno fino
a che non fui uscito. Poi non so bene che cosa si mise a guardare. Certa gente
semplicemente non ce la fa più. Ad un certo punto perde la forza di andare
avanti, la solitudine la schiaccia e la stritola. Allora si mettono a fare le
cose più impensate: annusano ascelle, si mettono a gridare in mezzo alla
strada, sparano alla suocera. Altri fissano altri in modo insistente e cercano
compagnia di continuo, come se fosse una droga che allontana la paura e la
fragilità.
Forse un giorno mi
avrebbe dato di volta il cervello pure a me. Per ora dovevo solo cercare di
starmene tranquillo e vivo. Uscii in cerca di un telefono, solo con altri tre
miliardi di perfetti sconosciuti abbarbicati su un sasso alla deriva.
Capitolo XX
Percorsi tutta
Strada Nuova senza riuscire a trovare uno straccio di telefono pubblico. Alla
fine trovai un baretto in Corso Cavour che faceva telefonare a pagamento. La
cabina era stretta e unta, puzzava di piscio. Composi il numero di un mio
amico, faceva il fotografo dalle parti di Borgo Ticino.
-Studio
Foto&Stampa Marelli –
-Dega, sono io
Marchi –
Ci fu una pausa.
-Marchi mi devi
dieci gambe dal derby del mese scorso
-Sì, sì te le darò,
per ora mi serve un favore –
-Parla più forte,
non si sente un cavolo, ma dove sei? Alla festa di tua nonna?
Effettivamente il
bar era pieno di rumore. Dagli altoparlanti usciva un pezzo degli Oasis e la
gente cercava solo di conversare più forte della musica. Una bella gara.
-Ho detto –gridai
–ho bisogno di un favore –
-I favori costano –
Feci una pausa.
Inspirai. Espirai.
-Non fare lo stronzo
Dega –
-Va bene, di che si
tratta? –domandò
-Fai ancora
fotomontaggi? –
-Già, i migliori
della città –
-Bene, potresti
sistemarmi un paio di foto? Vorrei che cambiassi un paio di particolari come
l’ora…che so, si può vedere un orologio?
-Niente che non
possa fare, spediscimele e le sistemerò –
-Grazie, ti devo un
favore –
-Ehi, mi devi ben
più di quello –
-Allora avvertimi se
cambi gusti sessuali –dissi
-Marchi secondo me
sei un povero svitato –e riagganciò
Uscì dalla cabina
che sudavo. Ero teso. Stavo per falsare delle prove. Stavo per andare contro a
tutto quello che avrebbe dovuto costituire la etica del mio mestiere. Ma non
c’era nessuna deontologia. Stavo incollato solo alle verità. E le verità
sapevano solo produrre conseguenze, non sempre erano la realtà dei fatti.
Ordinai un caffè lungo al bancone. Pensai che se dovevo rischiare la pelle del
didietro tanto valeva farlo per qualcosa di concreto. Mentre bevevo il caffè
raffazzonai bene i particolari da cambiare nelle foto scattate la prima volta
che avevo seguito Achilli. Dovevo collegarle al giorno e ora del delitto.
Bastava far comparire un orologio, un che ne so che indicasse l’ora del delitto
e lui vicino all’appartamento della vittima. Probabilmente i caramba gli
stavano già appresso per le impronte, per le testimonianze dei condomini che lo
avevano visto. Forse. Era un rischio comunque. Non ci voleva molto a scoprire
il fotomontaggio, però con lui poteva andare. Scrissi due righe per Dega e
trangugiai il caffè. Finalmente le cose stavano muovendosi, ora bisognava stare
attenti che non corressero troppo. Una bionda senza incisivi mi sorrise
dall’altro lato del bancone. Le restituii il sorriso e ordinai un altro caffè.
Capitolo XXI
Decisi di rischiare
l’ufficio. Erano ormai le cinque e non potevo girare a vuoto per Pavia tutto il
tempo. Tanto dovunque andassi finivo in qualche guaio. Sembrava impossibile
evitare gli svitati o i rompiballe. Pareva che mi stessero appresso, che mi
seguissero per il solo gusto perverso di crearmi fastidi. Una po’ di gente
voleva trasformarmi in scendiletto. Avevo un po’ di tensione addosso
comprensibilmente, sapete. Tornai verso l’ufficio e comprai il giornale.
Avevano dedicato un articolo in prima pagina al delitto Molini. Erano indagati
l’ex-marito, un conoscente e…Achilli appunto. Doveva sentirsi il culo caldo
pensando di essere prossimo alla fine. Una telefonata con minaccia gli avrebbe
dato una spintarella verso il passo falso. Stavo per inchiodarlo al muro.
C’eravamo. C’ero. Alla fine potevo farcela ancora.
Aprii la porta e
trovai Pallavidino seduto alla mia scrivania. Stava pulendosi un orecchio col
dito. Mi guardò come si fissano le pareti di casa. Forse non mi aveva visto,
forse era cieco. Era ovvio che non era lì per giocare ai quattro cantoni. Presi
la decisione di estrarre per primo.
-Che fine dannata
aveva fatto?
Mi guardò con tanto
d’occhi.
-Veramente è lei che
doveva farsi sentire
-Appunto. Perché è
venuto qui?
Ripescò dal
pavimento una valigetta, la aprì e ne cavò un giornale. Lo lanciò sul tavolo.
Mi avvicinai e lo guardai. Parlava del delitto Molini.
-E allora? –chiesi
Lui scattò in piedi
e andò alla finestra. Cavò una sigaretta dal taschino e se l’accese. Prese
un’ampia boccata ed emise un’ampia nuvola azzurra. Mi venne da tossire.
-Che investigatore
da strapazzo. Gioca a fare il duro ma non sa far altro che ficcarsi in guai
ogni giorno più grossi. Poi chiede soldi ai clienti. Vende fumo.
Buttai il cappello
sull’appendiabiti e lo mancai. Cadde sul pavimento. Mi sedetti sulla sedia al
posto di Pallavidino. Prevedevo un brutto quarto d’ora.
-Il morto c’è
scappato non per colpa mia. Il suo futuro genero…
-Mancato, prego –corresse
-…mancato..è lui che
la sta combinando grossa. Qualcosa bolle in pentola, qualcosa di grosso.
-Ci può giurare,
amico
Ora ero stato
promosso al rango di amico. Mi sentii felice. Aprii il cassetto e tirai fuori
la fiaschetta piena del nettare degli dei. Ingollai una profonda sorsata di
caffè.
-Al di là
dell’omicidio…è collegato ad una…-non trovavo le parole per quest’ennesimo
azzardo –una rapina
-Rapina?!
–Pallavidino mi si avvicinò. Mi soffiò una zaffata di fumo in faccia. Tossii
forte –Ne è sicuro?
-Certo –ribattei
tossendo –ho le prove anche di questo –
L’altro prese a
passeggiare su e giù per la stanza.
-Non so mai se
credere a quello che dice, Marchi. Non mi ha mostrato ancora nulla e la cosa mi
agita, mi rende nervoso…e sa quando mi agito…non mi controllo più –mi si
riavvicinò a due centimetri dal naso e schioccò improvvisamente le dita. Forse
voleva spaventarmi. Ci riuscì.
Decisi che era
giunto il momento di far vedere qualcosa. Almeno le foto non ancora ritoccate,
giusto per guadagnare un po’ di credito. Volli darmi un po’ di arie, l’avevo
visto alla tivù, in quel film con Humphrey Bogart (dove andava l’accento, sulla
“a”?). Buttai i piedi sulla scrivania e con una mano tirai fuori dal cassetto
le foto. Tentai di lanciarle con indifferenza ma mi volarono dappertutto.
Pallavidino le raccolse.
-Marchi deve essere
una sottospecie di pazzoide –
-Me l’hanno già
detto. E mi hanno fatto tanto male al cuoricino –ribattei
Mi guardò strano.
Forse pensava a me come ad un deficiente. Poteva avere ragione. Poi buttò
l’occhio sulle immagini che aveva raccolto.
-Le ho scattate in
viale Bligny, dove abitava
-Anche le sue
scarpe. Queste non vogliono dire nulla. Io voglio qualcosa di
incontrovertibile. Ha detto che è legato all’omicidio e che può provarlo, no?
Annuii.
-Bene mi mostri
qualcosa di grosso –
Allora la sparai
ancora più gigante.
-Domani avrà le foto
definitive. Quelle le tengo nascoste.
-Domani? –
-Domani. Alle tre,
qui. Sincronizziamo gli orologi –suggerii
Pallavidino si voltò
e masticò un –Idiota! –con un gesto di…beh avete capito. Aprì la porta, uscì.
Sparì. Etc.
Rimasi nuovamente
solo con i miei pensieri, le mie paure, le mie parole crociate. Quale delle tre
aveva la precedenza? Pescai con una mano
Capitolo XXII
Perciò un’ora più
tardi ero fermo al punto di prima. In strada era sceso il buio senza che avessi
acceso la mia luce da tavolo. Rimasi all’oscuro. I fari delle auto fendevano la
stanza da un lato all’altro, come tante frecce oblique, senza direzione, senza
scopo. Quanta luce che se ne va in giro. La luce è fatta di onde, raggi. Al
massimo ne usiamo solo alcuni, gli altri dove vanno? Si perdono nel nulla,
nessuno racconterà mai di loro, di quello che hanno visto o sentito. Dove
andiamo noi? Mi sentivo raggio sperso nel vuoto. Solo alcuni di noi cambiavano
le cose di molto, pochi riuscivano ad illuminare il buio e mostrare qualcosa,
la realtà, la verità. Gli altri vagavano senza meta. Onde parallele che non
s’incontrano mai, che percorrono infiniti spazi senza toccarsi. La solitudine
di ognuno è sopportabile solo se qualcuno la racconta, solo se qualcuno arriva
a raccoglierla. Il fallimento può sembrare meno opprimente se qualcuno
condivide quel che vedi. Se le nostre, le mie parole andavano sperse, se
nessuno fosse mai stato in grado di leggere quel che mi s’agitava dentro,
allora ero davvero solo. L’incomprensione era la solitudine. Ed io non riuscivo
mai ad avere dei reali contatti con gli altri che non fossero scontro. Ma alla
fine andava così a tutti.
Dal canto mio ero
vittima di una serie di bugie. Ma le bugie non esistevano. Achilli era
colpevole, anche se non ne avevo le prove. E bisogna forse ritrovare la essenza
del fatto se la certezza non ha bisogno di ulteriori riscontri? Se la verità
era
Infilai le foto in
una busta in cui misi anche le mie richieste per i fotomontaggi. Sigillai e
scrissi a penna l’indirizzo di Dega. Poi infilai cappotto e cappello e chiusi a
chiave tutto. Spedii la busta e tornai a casa. Sapevo che anche lì potevano
venire a cercarmi. Ma volevo solo dormire. Mi sentivo stanco. Avrei voluto
restare a letto per tre mesi, con le tapparelle abbassate e le coperte fino al
mento, a spurgare dalla paura.
Nel corridoio verso
il mio appartamento udii la classica festa delle vicine. Bussai alla porta.
Una tizia che non
conoscevo mi aprì.
-Ce l’hai qualche
birra? –mi domandò
-Cercavo…Lucilla
c’è? –
-Ah…un momento –e
rientrò. La sentii gridare –Lucilla c’è una vecchia scoreggia che ti cerca –
Trascorsero un paio
di minuti, poi comparve Lucilla. Aveva la fronte imperlata di sudore. I capelli
scarmigliati.
-Signor
Marchi…pensavamo fosse morto –
-Beh…manca poco.
Senti mi ha cercato qualcuno oggi qui? –
Lei alzò gli occhi,
come per pensare, si accarezzò il mento.
-Mmmmh…no, nessuno –
-Ah…avete notato
qualcuno che girava da ‘ste parti?-
-Mi sa che ha visto
DAVVERO troppi polizieschi –rispose
-Già..già sarà per
quello –ribattei –Va beh, buona notte –
-Buonanotte signor
Marchi….non vuole…? –fece un cenno col capo verso l’interno
-Cosa? Oh..Oh, no
grazie..sono un po’ stanco…grazie – e me ne andai
Mentre mi dirigevo
verso la mia porta sentii richiudersi la sua. La musica diminuì di colpo.
Controllai di avere la scacciacani. C’era. Bella ragazza. Aprii e mi infilai
dentro. Ero talmente nervoso che urtai una lampada e la feci cadere. Dentro
comunque non c’era nessuno. Controllai in camere da letto, sotto il letto, sotto
il tappeto, nel lavandino. Nessuno. O meglio, io. Che era peggio. Deposi la pistola e mi buttai
sul letto. Non mi svestii nemmeno. Dopo cinque minuti ronfavo beato con gran
parte del mondo.
Capitolo XXIII
Passò la notte, una
in più nella Storia del genere umano. Non finivamo mai di finire. Con tutti i
guai che ci capitavano stavamo sempre in piedi. Per me era già semplicemente
miracoloso questo.
Con una lentezza
incredibile mi buttai giù dal letto e mi sbarbai, mi vestii e mi succhiai un
po’ di caffè, sperando mi desse un poco di forza per sopravvivere ad un altro
giorno in paradiso. Sbagliavo di grosso. Mi sentivo più inutile del solito. Non
sapevo dove andare e che fare. Tutte le mie piste di indagine si erano arenato
o si erano infilate in un vicolo cieco. Avevo mentito ai clienti e mi ero reso
protagonista di un ricatto. In tutto non me ne era venuto in tasca granchè.
Nulla aveva senso.
Girovagai davanti al
Municipio per due ore e trangugiai tre caffè e una coca nel bar della piazza.
Tutto inutile: continuavo a restare sempre lo stesso. Decisi che ne avevo
abbastanza di tutto e tutti. Mi avviai a grandi passi verso l’ufficio. Che mi
venissero a prendere, non ne potevo più. Ero armato e avrei venduto cara la
buccia.
Entrai nella stanza
come avevo visto fare agli Swat, tralasciando il particolare dello sfondamento
porte. Non trovai nessuno. Mi barricai dietro la scrivania e spianai la
rivoltella in direzione della porta, pronto ad aprire buchi ad eventuali ospiti
indesiderati. Trascorsi così i venti minuti più lunghi della mia vita. Poi sonò
il telefono. Risposi.
-Sig. Marchi?
-Propriamente –
-Sono della Greco
viticoltori da tre generazioni. Volevo parlarle della nostra nuova promozione –
-Amico, continua
pure a parlare, ne sono avvinto –dissi e appoggiai la cornetta sul tavolo.
Nel contempo udii il
campanello dell’ingresso. Un cliente? Un nemico? Guai? Uno scoiattolo verde?
Tutte le ipotesi erano credibili. Strinsi l’impugnatura più forte. Un vociare
lontano giungeva dalla cornetta. Rumore di porta richiusa. Tolsi la sicura.
Dovevo fargliela vedere che ero un duro. Nessuno era disposto a crederti,
dovevi continuamente dimostrarlo. Noioso. Una goccia di sudore colò sulla mia
fronte. Poi comparve.
Giovanna Pallavidino
in tutto il suo splendore rivestito di un abito di Armani grigio si depose
sulla sedia. Mi fissò. Stava fumando una Marlboro. Emise una boccata di fumo
azzurrognolo. Continuavo a puntarle la pistola contro. Ero teso. Rimanemmo in
silenzio un paio di minuti, poi lei parlò.
-Accogli così le tue
clienti? Minacciandole con quella fionda? –disse indicando con un gesto la 9mm
-Può darsi, sono un
tipo previdente –ribattei senza spostare l’arma di un millimetro –Sei venuta
sola? –
-E chi dovevo
portare? Le fate di Disneyland?
Sorrise. Sempre quel
sorriso metallico che faceva male. Non mi mossi.
-Il tuo compagnuccio
Achilli dove l’hai parcheggiato?
Mi guardò strano.
Ormai era diventata un’abitudine. Si voltò di lato ed emise una boccata di
fumo.
-Mio padre l’ha
cacciato di casa non appena saputo che la polizia lo cerca per interrogarlo…non
lo sapevi? –
-Perché avrei
dovuto, bimba? –
-Non siete amiconi
da un po’ di tempo a questa parte? –
-Quante cose che
sai….chissà chi te le ha strombazzate –
Lei alzò le spalle.
Mi fissò e si sporse verso di me. Mi si accostò all’orecchio, provocante.
-Volevo solo dirti
di fare testamento, perché Alberto ti sta alle mutande e ti farà la festa
–sussurrò
Sentii che mi
eccitavo parecchio. Era il terrore, il rischio o qualcosa d’altro. Molto
probabilmente il qualcosa d’altro.
Con la canna della
pistola le premetti sulla pancia. Lei si allontanò da me. Tornò a sedersi.
-Che c’è Marchi, hai
paura?
-Non mi fare
incazzare, Giovanna…
-Altrimenti che
farai? Chiamerai l’esercito? O mi sparerai con quel liquidator lì? –poi rise.
Si alzò. Spense la
sigaretta sulla scrivania. Ma prima di andarsene mi lanciò un’ulteriore
minaccia
-Hai tirato troppo
la corda, capellone…peccato iniziavo a volerti bene –
-Capellone?!
-Hai una specie di
parrucca lassù, dove dovresti averci la testa –
Poi mi lanciò un
fugace bacio. Spianai la pistola. Ma lei era già sparita attraverso chissà
quale varco spaziale. Rimisi la sicura. La cornetta era ancora appoggiata.
Emetteva suoni tipo tu-tu-tu. Avevano messo giù. Riagganciai anch’io. Quindi
qualcuno mi stava dietro con l’unico scopo di pelarmi quella bella parrucca che
avevo in testa. Mi guardai nel vetro della finestra. Mi riavviai i capelli e mi
aggiustai la cravatta.
Mi cadde l’occhio
sull’orologio. Le due e mezzo. Alle tre avevo appuntamento con Pallavidino e
non avevo nemmeno le foto. Agguantai il telefono. Composi il numero di Dega.
Quando alzò la cornetta parlai per primo.
-La balia verrà a
riprendere il bamboccio –dissi scandendo bene le parole
-Cosa? Eh?
-Dega sono Marchi.
-Secondo me ti hanno
svitato le rotelle e poi le han lasciate in giro. Che diavolo vuoi?
-Hai ricevuto le
foto?
-Seeh
-Le hai sistemate?
-Che cazzo dici? Ho
altro da fare che stare dietro ai tuoi giochetti alla guardie e ladri
-Dega, ne va della
mia vita. Tra venti minuti sarò lì. Ti prego….
-Cazzo, non se ne
parla nemmeno, come faccio ho altri clienti!
-Ti prego, ti prego,
ti prego –dissi con tono da suorina anziana
Lo udii sbuffare.
-Va beh, vedrò di
sistemarne alcune
-Grazie ti devo un favore
-Altrochè –
Riagganciai e mi
fiondai fuori. Lasciai il cappello in ufficio, ma non l’artiglieria. Presi
l’auto e corsi verso il negozio di Dega.
Capitolo XXIV
Riuscii a recuperare
le foto e a tornare entro le tre e un quarto. Ne mancavano alcune in verità,
però poteva andare. L’importante non era quello che avevi in mano, bensì quello
che gli altri credevano tu avessi. Era un gioco dalle regole e dal ritmo
sfibrante. Il solo restare vivo poteva essere considerata una gran bella
vittoria.
Arrivai in ufficio e
trovai Pallavidino nella sala d’aspetto, che lasciavo sempre aperta.
Stava leggendo una
rivista vecchia come il cucco. Alzò gli occhi dalla lettura e mi squadrò.
-Non s’era detto
alle tre? –domandò
-Il mio segna le tre
in punto. Le avevo detto di sincronizzare gli orologi –
Lui sbuffò, gettò la
rivista sul mucchio delle altre e si alzò. Mi fissò.
-Lei ha qualcosa per
me –
-Ben detto –e
mostrai la busta contenente le foto -Mi
segua –e feci strada nel mio palazzo unto.
Ci sedemmo, io
dietro la scrivania, lui sulla sedia dell’ikea, di fronte. Mi sentivo accaldato
per la gran corsa. Buttai la busta sul pianale,
mi tolsi la giacca e rimasi in camicia. Ero sudato e due macchie di sudore
si allargavano sotto le ascelle. Pallavidino mi guardò con disprezzo.
-Faccia vedere, così
ci togliamo il pensiero, che non se ne può più –disse e si allungò verso la
busta. La presi in mano in tempo. Questo era il mio momento. Dovevo tenerlo
sulle spine almeno un altro po’. Volevo gustarmi questo momento di superiorità.
Dubitavo che ce ne sarebbero stati altri. Accesi la radio e beccai un pezzo di
Benny Goodman.
Pallavidino era visibilmente scocciato.
-Mi dia quelle foto
–comandò con la mano ancora tesa
Lo guardai. Tirai
fuori la fiaschetta di felicità dal cassetto.
-Caffè? –domandai
agitandola
Lui tacque. Alzai le
spalle e me ne versai un sorso in bocca, di quelli buoni.
-Marchi sono sempre
più perplesso sulla sue capacità professionali
-Anch’io. Forse semplicemente
ce le siamo immaginate. Non sono mai esistite – lo squadrai con aria
presumibilmente cattiva –Non le interessa la verità?
-Mi interessano i
fatti e quelle foto lo sono
Gliele gettai
praticamente in faccia. Lui sussultò. Fece un movimento buffo nel cercare di
afferrarle. Mi venne da ridere e lo feci. Si chiama libertà.
-Idiota –mi lanciò.
Poi aprì la busta e scorse le immagini una dopo l’altra, silenziosamente.
-Achilli era
impelagato con questa tipa, Denise Molini. Si frequentavano da un bel po’ –
-Mi dica qualcosa
che non so –
-Oh che battuta
vecchia! –dissi alzando gli occhi al cielo
-Cosa? Eh? –
Feci un gesto di
lasciar perdere.
-Poi lei deve aver
alzato il tiro, forse aveva scoperto che stava per fare un ricco matrimonio –
-Ha detto giusto:
stava per ribattè Pallavidino
-Beh insomma… allora
lo ha minacciato di strombazzare tutto e lui le ha cucito la bocca fino al
giorno del giudizio –
Pallavidino finì di
esaminare le foto. Le appoggiò sul tavolo.
-E la rapina? –
-La rapina?! –
-Già mi aveva
parlato di una rapina in cui era coinvolto Achilli…
-Ah già….la rapina
–feci una pausa. Inspirai. Espirai. Non avevo uno straccio di prova, stavo
inventando tutto –di quest’argomento parleremo in seguito, per ora ci sta
pensando la polizia –
Notai un sorriso
furbetto dipingersi sul suo volto. Pescò una sigaretta dal taschino. Se la
infilò in bocca, l’accese.
-Avendo più tempo,
sig. Marchi, mi piacerebbe davvero approfondire i suoi metodi d’indagine –
-Ah ah –agitai il
ditino –Questi sono segreti professionali –
-Professionali…..
-Comunque il caso è
chiuso. Ora deve pagare –
Pallavidino mi
soffiò una nuvola di fumo in faccia
-Chissà se poi se li
merita davvero questi soldi –
Senza pensarci due
volte tirai fuori la
-Ehy, calma…vuole
spararmi? Diamine scherzavo –ora appariva decisamente agitato. Era la seconda
volta che minacciavo qualcuno con un’arma da fuoco quel giorno. Stavo
diventando violento.
-Non ho per gli
scherzetti, amico. Ora paghi ed evapori –
Tirò fuori il
libretto degli assegni senza una parola. Gli tremava la mano. La sigaretta si
consumava senza che ne aspirasse nulla.
-In contanti –dissi
-Ok, ok, non ti
scaldare –
Pallavidino cavò i
soldi in biglietti da cento dal portafoglio e li poggiò sul tavolo. Poi si alzò
e senza darmi le spalle arretrò verso la porta.
-Le foto –dissi
-Cosa?
-Le foto nella
busta, sono sue –
-Al diavolo, le
bruci –poi girò i tacchi e svanì.
Tornai ad essere
solo. Ero pure parecchio incazzato. Non combinavo nulla, avevo inventato le
prove e minacciavo gente senza motivo.
Presi le foto e le bruciai con un accendino da quattro soldi vinto alla
fiera delle castagne. Le buttai nel cestino e le guardai svanire in cenere. Ne avevo combinate troppe, non potevo pensare
di andarmene in giro come niente fosse. Qualcuno mi avrebbe dato una lezione.
Era solo questione di tempo.
Capitolo XXV
Decisi di farla
finita anche con la signora Marchisio. Quella era la faccenda che più mi dava
un senso di nausea. Forse con i prossimi casi tutto sarebbe andato meglio.
Forse.
Mi appropinquai al
telefono, ma fui preceduto: un lungo trillo si diffuse per la stanza. Sapeva di
cattivo quel suono. Esitai un attimo con la mano sulla cornetta. Poi l’alzai.
-Pronto –
-Marchi –sussurrò
una voce che riconobbi essere Achilli –Come stai?
-Ho un po’ di mal di
testa, ma per il resto male
-Senti, ti voglio
proporre un affarone
-Per chi, per te o
per me?
-Per entrambi –
Avevo un tono
preoccupato. La voce gli tremava.
-Posso indovinare?
Ti interessano le foto
-Già…le hai ancora?
-Forse. Che ci
guadagno?
-Mettiamola così: se
me le dai, nessuno si procura del dolore.
-Quindi ci
guadagnerei in salute…. –precisai
-Allora le hai?
–domandò
-Le ho bruciate –
-Cosa? Brutto idiota
perché hai fatto una roba del genere? – gridava. Seguì una pausa. Poi lo udii
ridere –Aaah, c’ero quasi cascato…mi vuoi fregare eh? Non puoi essere
così…così…
-Idiota? L’hai già
detto.
-Ascoltami,
bamboccio: ora ti vengo a beccare. Giusto per fare quattro chiacchiere, tra amici,
sai…
-Gli amici non si
minacciano al telefono –obiettai
-I miei sono
consigli…mettiamola così, se le foto magicamente compaiono potrai trascinarti
nel tuo fango ancora per un po’…
-Altrimenti?
-Altrimenti non
dovrai più preoccuparti dell’affitto….
Riappesi.
Tornai ai miei
problemi. Stavo rischiando per niente, per delle balle. Fantastico. Chi non
vorrebbe essere in una situazione così?
Indossai il cappello
e il cappotto e infilai la fondina con la fida paramosche. Chiusi a chiave
l’ufficio con un sospiro. Su tutto aleggiava una sorta di attesa, di tensione.
Aspettavo. Qualcosa che doveva accadere e che ancora non era accaduto. Mi
sentivo come d’estate quando si profilavano le nubi del temporale
all’orizzonte. Godi gli ultimi scampi di sole e con la mente ti chiedi quanto
intenso sarà l’acquazzone, se sei stato un imbecille ad aver lavato l’auto,
quanto durerà, se ci sarai quando comparirà l’arcobaleno. Non avevo paura di
morire, mi seccava l’assenza. Avevo paura di quello che potevo perdermi, volevo
esserci, anche solo per vedere come andava avanti la faccenda, la vita.
Desideravo io ricordare più che essere
ricordato.
Capitolo XXVI
Camminai a passo
svelto su per Corso Garibaldi fino ad un locale in Strada Nuova. Entrai e presi
un tavolo. Dentro un barista di quelli che non la piantano più di fare battute
e punzecchiarti, come fosse un vecchio amico. Mi sedetti su una poltrona di
pelle nera. Sentivo odore di capolinea. Altri tre avventori stavano aggrappati
al bancone, davanti al loro terzo o quarto drink, come fosse un salvagente.
Nessuno diceva nulla. Il barista prestigio ogni tanto diceva qualcosa, poi
scoppiava a ridere. Nessuno si preoccupava di rispondergli. Ecco un altro
plotone di gente che non ce la fa più, pensai. Quando superiamo il punto di non
ritorno? La vita è una sconfitta lenta e costante. Non si capisce mai quando
finisce un periodo positivo e quando ne comincia uno pessimo. I confini sono
talmente labili.
Alzai e lasciai
cadere tre volte il portacenere della Beck’s che avevo sul tavolo, prima che il
barista si degnasse di venire da me.
-Ehy amico…disse
-Buongiorno, senta…
-Oh, non mi dare del
“lei”, mi fai sentire vecchio… -si girò verso gli altri avventori e strizzò
l’occhio. Uno dei tre accennò un sorrisetto. Un altro ruttò forte.
Lo guardai bene.
-Ma sei vecchio –replicai
Lui rise.
-E’ divertente
–osservò ma gli era passata gran parte della voglia di scherzare
-Prendo una coca con
limone
-Ok –disse
-Un’altra cosa…avete
un telefono?
-Dietro la porta del
bagno, laggiù a destra –indicò –Però poi mi paghi eh? –e rise di nuovo
-Chi lo sa… -dissi e
mi alzai verso l’apparecchio
Composi il numero
della Marchisio e aspettai che rispondesse.
Al terzo squillo
udii la sua voce.
-Sì?
-Sig.ra sono Marchi,
ufficio oggetti smarriti
-Marchi, pensavo non
l’avrei più sentita
-Già, ho avuto il
mio daffare in borsa
-In borsa? Ma non fa
il poliziotto privato?
-Ok, ripartiamo da
zero. Mi raggiunga che ho delle informazioni su suo marito
Ci fu una pausa.
-Dove si trova?
-Sono al Safarà, in
Strada Nuova. La aspetto
-Arrivo tra una
mezz’ora…
E riappese.
Mezz’ora. Una vita. Per una farfalla è tanto. Io avevo meno aspettative di
vita. Dovevo correre e cosa mi toccava fare? Aspettare che una si incipriasse
il naso. La mia vita era in mano ad una donna. Allora potevo cominciare a
scavare e prenotare il tipo di legno preferito per la cassa.
Tornai a sedermi. La
mia coca era arrivata, sgasata. Ne ordinai un’altra e rimasi lì a pensare. Che
condanna per l’uomo. Potessimo staccare il cervello a comando, quanto si
vivrebbe meglio. E invece ci tocca star
lì sul letto in attesa che venga a piovere, che poi smetta, che poi ricominci.
Ma erano parole che sapevano di già detto.
Trascorse un’ora e
scese il buio. Non arrivò nessuno. Stavo cominciando a perdere la pazienza. Ero
già alla quinta coca. Provai a richiamare. Il telefono squillò a vuoto.
Riprovai una seconda e una terza volta. Niente. Vuoi dire che se l’era
dimenticato?
Tornai a sedermi. Mi
presi il volto fra le mani. Ora non sapevo più che fare. Qual era la mossa
successiva? Che dovevo dire, dove andare? C’era qualcuno che potesse condurmi
per mano, che mi dicesse quando dovevo cominciare a correre?
Poi udii il barista
urlare e correre verso la porta
-Ehi, amico, lì non
la puoi mettere quella carriola –
Alzai lo sguardo e
li vidi. Il biondino e Achilli discutevano animatamente con il barista
prestigio. Avevano fermato l’auto davanti alla vetrina. Dubitai fossero lì per
un drink in compagnia. Dubitai li avesse condotti il caso. Mi stavano alle
costole. Litigarono ancora un po’ e poi il biondino mollò un micidiale destro
in faccia del barista e lo mandò a planare nel vetro. Mille frantumi inondarono
l’ingresso del locale. Gli ubriaconi corsero via dimenticandosi di pagare.
Decisi che dovevo andare altrove. Infilai la porta del bagno e sperai che la
finestra fosse grande abbastanza. Lo era. Ringraziai Dio e altri personaggi del
Rosario. Aprii le ante e mentre mi sporgevo fuori con una gamba, arrivò
Achilli.
-Fermo lì –gridò e
mi si avventò contro. Gli sferrai un calcio e lo respinsi contro il muro lurido
del cesso. Poi finii di scavalcare e mi ritrovai in un vicolo.
Capitolo XXVII
Come i piedi
toccarono il suolo iniziai a correre a rotta di collo su per la strada. Urtai
una vecchia e la mandai in terra. Mi lanciò una elaborata maledizione
vittoriana. Ma non avevo tempo per le scuse: dovevo portarmi velocemente
lontano da lì: li avevo addosso, ne udivo i passi risuonare alle mie spalle. Mi
sembravano maledettamente vicini, troppo vicini. Avvertivo il didietro caldo.
Cominciai a scartare a caso per i vicoli, tentando di far perdere le mie
tracce. Ad ogni svolta incappavo in qualcuno, in una bicicletta, in una donna
stracarica di pacchi, in un cane a zonzo. Sembravano tutti lì ad aspettarmi per
mettermi i bastoni tra le ruote. Nei film queste cose non accedevano se non ai
cattivi: ero dunque un cattivo anch’io?
Chissà come sbucai
in Corso Cavour. Davanti a me a pochi passi, un tre stava partendo dalla
fermata: attraversai la strada davanti all’autobus. Poco ci mancò che mi
pigliasse sotto. Però mi fece guadagnare qualche secondo. Il biondino e Achilli
dovettero aspettare che passasse. Io mi buttai in una viuzza che rasentava il
Tribunale e mi ritrovai prima in una piazza piena di ausiliari della sosta. Ne
urtai qualcuno anche se avevo molto spazio, questa volta con un particolare
gusto, vista la multa che mi avevano fatto il mese prima. Poi proseguii verso
Viale Matteotti. Forse li avevo seminati. Attraversai la strada e mi fermai su
una panchina, sotto gli alberi. Annaspai tentando di recuperare un po’ di
fiato. Due barboni stavano pisciando dietro una siepe. Un terzo beveva a canna
da una bottiglia di vino. Mi guardò e poi ruttò senza troppi pensieri per la
testa. Forse ce l’avevo fatta. D’improvviso una zampa sudaticcia sbucò dalle
spalle e mi afferrò il bavero del cappotto. Era il biondino. Gli presi la mano
e cercai di rovesciarlo. Non ci riuscii. Allora gli morsi la carne, più forte
che potei. Quello gettò un urlo e cadde in terra. Gli tirai un calcio e ripresi
a correre. Infilai la strada verso la stazione. Scappavo senza sapere dove, ma
cercavo di farlo il più velocemente possibile. Mi voltai un attimo e li vidi
ancora lì: a cento metri che non mi si staccavano un attimo. Il biondino aveva
la mano tutta rossa. Dovevo averlo colpito duro. Discesi una scalinata in
cemento armato che portava verso i binari. Ad ampie falcate attraversai i
binari morti e i carri merci abbandonati. Mi diressi verso un capannone
dimesso. Sentivo il cuore battermi nelle orecchie, in gola, nello stomaco. Mi
mancava l’aria e mi pareva di essere lì lì dalla morte. Entrai attraverso un
cancello sfondato e mi nascosi dietro un muretto mezzo crollato. Di correre non
ne potevo più, dovevo affrontarli. Cercai la fida sputafuoco e la trovai.
Controllai quanti colpi avevo: sei, più quelli nel caricatore. Pochi davvero,
visto che quelli erano in due. E avevano tutta l’aria di volerla fare finita
con me. Udii i loro passi risuonare nell’edificio. Cercai di respirare con la
bocca per non fare rumore, ma il mio cuore non voleva saperne di fare silenzio.
La vera domanda ora era: chi di noi avrebbe rivisto l’alba l’indomani? Avrei
voluto essere io, anche se odiavo le levatacce.
-Marchi… -gridò uno
dei due, mi pareva essere Achilli –sai perché siamo qui
Volevano farmi
parlare, i bastardi. Volevano sapere dove mi nascondevo.
-Marchi…vieni qui
che la facciamo da uomini, che ce la sbrighiamo tra noi –questa volta era il
biondino.
Dallo scalpiccio
capii che si stavano muovendo lentamente e cautamente. Che dovevo fare? Ero in
trappola, ma c’erano delle vie d’uscita? E quali? Non riuscivo a ragionare, ero
troppo agitato, troppo, troppo davvero.
Cercai di calmarmi.
Potevo nascondermi dietro qualche cassa. Avrei potuto fare fuoco da lì e
sperare di beccarne almeno uno. Poi l’altro…va beh, ci avrei pensato poi.
-Tu di qui –sussurrò
Achilli al compare. Sentii che si allontanavano. Dopo ci fu silenzio. Li avevo
persi e non potevo certo sporgermi a guardare. Dove erano? Passarono un paio di
minuti che parvero un’eternità. Infine un cigolio di sicura che veniva tolta.
Proveniva dalle mie spalle: era a pochi passi. Ero spacciato, fatto. Decisi che
dovevo tentarla. Mi gettai fuori. Uno dei due mi vide
-Eccolo –gridò. Poi
ci fu una detonazione, amplificata dall’eco. Una pallottola schizzò a due
centimetri dal mio cappello. Rotolai dietro un serbatoio dell’acqua
arrugginito. Era la fine. Lo sentivo. Ma volevo vendere cara la pelle. Riuscii
a strisciare carponi per un paio di metri fin dietro un mucchio di casse.
-Vieni fuori, pezzo
di merda –urlò il biondino. Si trovava proprio davanti a me. Potevo tentarla
–Vieni fuori che ti faccio nuovo il buco del culo -precisò
Presi un pezzo di
cemento e lo gettai tre metri più in là. Il biondino sparò in direzione del
rumore. Tutto accadde in un attimo: balzai in piedi, puntai e premetti il
grilletto. La canna si incendiò e un boato riempì l’edificio. Vidi il biondino
girare su se stesso e cadere. Achilli mi vide e sparò. Uno, due, tre colpi. Mi
buttai a terra e una pallottola mi bucò il cappotto. Ora avevo esaurito le mie
mosse. Però ne avevo beccato uno: eravamo ad armi pari, ora. Uno a zero per
Marchi.
Ansavo. Mi sentivo
eccitatissimo. Rischiavo la mia vita ed ero euforico per la prima volta in
chissà quanti mesi. Potevo farcela. Dovevo farcela.
Achilli doveva
essere incazzato duro. Non se l’aspettava una resistenza così. Aveva pensato di
potermi fare il cappotto di legno in quattro e quattr’otto. Col cavolo, pensai.
-Ti ammazzerò,
Marchi, come ho fatto con quella puttana della Marchisio –
Ci rimasi. Allora
era per quello che non era venuta. Morta. Perché? Che c’entrava lei? Lei era
l’altro caso, quello del marito scomparso, come poteva? Troppe domande Marchi,
ora pensa a uscirne vivo. Solo questo. Vivo.
Strisciai il più
silenziosamente possibile per un paio di passi. Poi mi coprii la fuga con un
paio di colpi. Uscii allo scoperto e corsi dietro ad un macchinario scassato.
Dovevo tentare di uscire da lì. Piano piano dovevo avvicinarmi all’uscita.
Piano. Piano, mi raccomando.
-Ti avevo detto che
quelle foto non dovevi darle in giro, bello –gridò il cattivone. Gli piaceva
dar fiato alle trombe. Non riuscivo a capire dove si fosse nascosto. L’eco
mascherava la provenienza della voce.
-Io volevo esserti
amico, ma tu…tu hai creato solo problemi sin dall’inizio…
Parla, continua,
parla ancora
-…tutto quel
continuo chiedere, andartene in giro a ficcare il naso…hai fatto la pipì fuori
dal vasino…
Sparai altri due
colpi nella presunta direzione della voce. Corsi ancora verso un nuovo riparo.
Mi buttai dietro un mucchio di calcestruzzo. Ero a pochi passi dall’uscita.
Bastava un balzo. Dovevo trovare la decisione e il momento adatto. Non sentivo
più Achilli. Forse gli era venuto un colpo. Ma era altamente improbabile,
questo genere di cose non succedono in questi racconti.
Vidi il sole
filtrare dalla porta. Il tempo si fermò. Era il momento. Almeno lo era per me.
Scattai. Ci fu uno scoppio, poi un altro, come i petardi a Capodanno. Avvertii
una fitta nella schiena, poi una seconda alla gamba. Caddi. Tentai di rotolare
al riparo ma non ci riuscii. Achilli venne fuori. Rideva. Mi poggiai sui gomiti
e cercai la pistola. L’avevo perduta. Doveva essere caduta lontano. Capii in un
solo momento che era finita. Non provai tristezza. Un po’ di paura, forse.
Avrei preferito fare di più prima di farla finita.
-Inutile, bimbo
–disse l’altro –hai sbagliato..una volta di più.
Mi voltai sul
fianco. Achilli mi puntava la pistola addosso.
-Andiamo –dissi con
un filo di voce –mica ce l’avrai con me per quelle foto? –
-No, non solo,
diciamo per varie cose –
-Sono solo
fotomontaggi, le ho inventate… -tossii. Mi faceva male
Rise
- E vuoi farmi
credere che non avevi prove? Che ti fai ammazzare per…per nulla?
-Ma dai, non so
nulla, ho inventato tutto.
-E invece so…anche
-Cosa? Io non so
nulla
-Mi stai annoiando
sono tutte balle. Volevi la verità ed ora l’hai trovata
-Quale verità?
-Quella che
preferisci
Vidi la canna
avvicinarsi. Vidi il nero. Fuori splendeva il sole ed io morivo. Fuori la gente
viveva tranquilla, ignorando la mia fine, il mio dolore. Indifferenti. Ma
anch’io ero come loro. Anch’io ero come tutto quello che avevo sempre criticato
e condannato, non mi allontanavo molto dal fango che vedevo in tutto il resto.
Avevo cercato una verità mia, avevo prodotto prove convinto della colpevolezza
di un uomo. Avevo scatenato una reazione che non potevo controllare e di cui
ero rimasto vittima. Un meccanismo si era messo in moto, un organismo del quale
non conoscevo gli ingranaggi. Non avrei mai saputo cosa gli altri credevano io
sapessi. E quando fu buio anche su di me, quando vidi il sole svanire dietro
l’orizzonte, capii che nessuno avrebbe mai conosciuto la realtà dei fatti, ma
solo quella verità che aveva mosso le persone e che aveva prodotto la mia fine.
Nulla più. Fu buio e la notte, svanirono le stelle e mi rannicchiai, in attesa
di una luce che forse non sarebbe venuta mai. Chissà.
La veritè ne fait pas tant de bien dans le monde, que ses
apparences y font de mal