Montagne dell’Oltrepò
La
cartina parlava chiaro: laggiù c’erano delle montagne. Altro che colline.
Rilievi consistenti, di anche 1500,
Giogaie
rocciose. Foreste vergini. Fonti incontaminate. Perfino un rifugio del Cai.
Ma siamo
pur sempre nella piatta e torpida provincia di Pavia, distesa tra le putride
risaie del dr.Scotti, infestate dalle zanzare e dai vietcong. Conosciamo bene – e anche gli Idioti ce le hanno presenti - le colline di Broni,
di Varzi, di Santa Maria
della Versa. Cibo. Vigneti. Castelli. Colline, però; tipo quelle del
piacentino. Ondulazioni del terreno. La cartina diceva montagne.
Una
mappa. Una quota altimetrica a quattro cifre. Un lontano rullare di tamburi.
Uno sfumato odore di letame.
Dovevamo
scoprire la verità.
Una
spedizione agile – una toccata e fuga esplorativa rapida e silenziosa. Niente
portatori né bagagli. Una sola auto. Uno storico regolarmente
iscritto all’albo degli Idioti; Beppe, ingegnere civile della Valseriana, roccioso montagnino bergamasco; Claudio, il bibliotecario del Collegio, suonatore a tempo perso di flamenco
– un inquietante parallelismo con un altro
Claudio; e non solo per la tozzezza delle membra. Sono le due di
un pigro sabato pomeriggio di giugno. La città boccheggia, schiantata dall’afa
opprimente che ristagna sul fondo acquitrinoso della Padania.
L’aria tremola. Partiamo. Attraversiamo il Ponte Coperto e Borgo Ticino, poi
imbocchiamo la statale diretti a sud.
L’Oltrepò pavese ha la caratteristica forma di un cuneo
conficcato tra la provincia emiliana di piacenza e
quella piemontese di Alessandria, lungo circa
In
circa un’ora raggiungiamo la nostra base di partenza: la borgata di Cegni, aggrappata ai pendii del monte Bagnolo.
Il
nostro progetto è esplorare la prima tappa dell’antica “via del sale”, che da questo fondo valle, valicando le creste dell’Appennino,
scende fino al mare – un percorso di più giorni che ci ispira parecchio per il
futuro. Parcheggiamo l’auto nei pressi del sentiero, e lo imbocchiamo. Il tratto iniziale è una
mulattiera ripida,
immersa in un fitto bosco di latifoglie. Siamo tra i
novecento e i mille metri di quota, ma le nubi scure e minacciose sopra
la nostra testa, oltre a non promettere nulla di buono, creano anche una
fastidiosa cappa di umidità. Comincio a sudare parecchio, attirando nugoli di insetti. (Le macchie scure della
foto a destra sono mosche che mi ronzano intorno.) Insetti a
parte, man mano che proseguiamo l’aria si fa più sottile, più montana, complice anche quell’inconfondibile odore di sterco di vacca tipico
dell’alpeggio, nonché lo scampanacciare dei bovini al
pascolo brado. L’unica nota un po’ stonata sono alcuni inquietanti stagni
torbidi e immoti: sono boasse,
sostiene Beppe, ovvero abbeveratoi per il bestiame. In
quanto ingegnere, ne è affascinato. Ma
se è per questo, lui parla anche con le vacche, e le trova simpatiche. Noi
cittadini siamo invece piuttosto sospettosi. Queste bestie hanno infatti un che di troppo selvatico: sono estremamente agili
e saltano con disinvoltura su e giù dagli argini del sentiero incassato;
inoltre non muggiscono come le nostre, ma emettono una specie
di barrito stentoreo da dinosauro -
sembra che si chiamino segnalando la nostra posizione.Mah.
Proseguiamo.
Il bosco diventa progressivamente misto, con caratteri
più marcatamente montani. A
sinistra, in fondo alcuni larici; a destra un cardo, tipica pianta alpestre e
un grosso formicaio a piramide, estremamente
affascinante. Più stai lì a guardare le formiche, più ti rendi conto che forse
non è l’uomo, a dominare il pianeta Terra. Sono gli insetti gregari. Grandi
numeri. Alta tecnologia. Disciplina ferrea. Spirito di sacrificio. Non saranno
i dazi industriali a fermarli, né i provvedimenti anti-dumping della
Commissione Europea. Quando le nostre ossa
biancheggeranno al sole, saranno loro a spolparci – maledetti cinesi. Intanto,
fanno la loro comparsa in numero sempre maggiore piante molto appariscenti e
decorative, dai fiori di un bel giallo acceso – a prova di discromico.
Le infiorescenze sono molto simili a quelle del glicine; però non sono
rampicanti. Si tratta di maggiociondoli, scopriamo in
seguito. Tendono a spargersi a grande distanza l’uno
dall’altro, probabilmente facendo portare i semi dal vento; in certi punti,
però, formano dei veri boschetti gialli, degni del miglior Tolkien.
Peccato che la bassa risoluzione delle immagini non renda bene l’idea.
Stiamo
camminando da circa due ore, quando gli alberi si diradano; cominciano ad
apparire qua e là squarci di prato. I cartelli segnalano la presenza di
selvaggina di grossa taglia; più ancora dei cartelli, fa fede il bossolo di una
carabina Winchester calibro 308 che raccolgo (l’ho in
mano in questo momento). Credo non sia un’arma per la caccia alle lepri.
Il
bosco all’improvviso si apre – la mulattiera ora serpeggia
per una serie di poggi coperti di prati e mandrie di vacche. Il tempo
scarseggi: decidiamo di proseguire solo fino al più alto dei rilievi davanti a
noi. Purtroppo nemmeno il cielo ci è favorevole; anzi, comincia perfino a piovigginare. E’
un vero peccato, perché, sebbene non sembri, siamo parecchio in alto – se non
ci fossero nubi tutt’intorno, la vista spazierebbe per un raggio vastissimo sulla pianura a nord e
sui monti liguri verso sud. Ci torneremo; intanto, cominciamo la discesa. Che, contrariamente a quel che sostiene dr. Gonzo, se c’è un
pendio vero è tutt’altro che
riposante. Arrivo a valle con le gambe rotte. Per fortuna il temuto temporale
non scoppia, o si scatena alle nostre spalle; sulla nostra
testa le nubi si diradano. Possiamo camminare in tranquillità, e cogliere anche
qualche immagine un po’ più solare del panorama. In particolare, ad una svolta
del sentiero, il bosco si apre e ci regala una superba veduta dell’alta valle
dello Staffora; che bele
robe.
Testo:
Brindone
Foto:
Brindone e ing.Beppe
Grazie
a Claudio