Roccia, solo roccia intorno, e nubi che scivolano dal passo. L’ombra sta calando; la temperatura si abbassa. Non c’è un’anima; solo noi a sfidare l’impervia pista, tra nevai e ripide frane instabili.
Noi, e i corvi. Nella gola la foschia è densa e gelida: siamo prigionieri di un mondo ovattato e silenzioso. Il valico è sempre là sopra, inafferrabile. Appare e scompare. Non è affatto vicino come sembrava: dietro ogni pendio, ogni parete che superiamo, all’apparenza decisivi, si nasconde un’altra valle, un’altra scala da affrontare. Non c’è più sentiero: solo segni che indicano la via da seguire nella neve, cordini di ferro per aggrapparsi dove la cornice della roccia è più stretta ed infida. Un passo dopo l’altro. Un respiro dopo l’altro. Ogni due, tre minuti una sosta – tirare il fiato, guardarsi indietro: e Poncharello è davvero sempre, sempre più indietro.
Il tempo corre: al rifugio ci aspettavano per le sei – ma sono ora le sei, e solo il cielo sa quanto ci metteremo ancora. E’ quasi un incubo. Mi sento in trappola. Lo scarpone è sempre più malandato: il ghiaccio si infiltra tra la suola in distacco e il sottopiede; le stringhe che tengono precariamente insieme il tutto si bagnano e si allentano. Vorrei mettermi a correre, saltare da una roccia all’altra, uscire di qui il più velocemente possibile; anche Max e Cappella scalpitano. Ma abbiamo già lasciato indietro un compagno. Non possiamo abbandonarne un altro.
Piove. La montagna comincia a fare paura.
Gli eroi del Brenta, parte prima
Qualche ora prima…
E alla fine eravamo partiti. Chi l’avrebbe mai detto?
Mesi di appassionate discussioni a vuoto, gran
sventolare di cartine, pagine sul sito, appelli sul guestbook:
tutto il tipico corredo delle idee destinate ad un oblio infelice. Invece no. Dopo aver vegetato sull’index
per eoni, la “proposta montanara di Brindone”
torna all’improvviso utile, quando il medesimo B. si sveglia un bel mattino con
la consapevolezza dell’”ora o mai più” – abilmente instillata dal diabolico Poncharello. Ed ecco dall’oggi al domani, coinvolto
l’inaspettatamente entusiasta Cappella, l’impresa cominciare a prendere forma,
nel solito rigoroso casino – si stabilisce un calendario, un itinerario, lo si cambia, lo si allunga, lo si accorcia, si prenota, si
prenota, si sposta la prenotazione. Si trovano nuovi compagni: ad una
grigliata, B. recluta Max, studente di regia anzi ormai regista diplomato, e Paulìn, allevatore di struzzi per vocazione e domatore di
drogati per professione. Insomma, due volontari abbastanza
pazzi da partecipare ad un glorioso spiegamento della migliore Idiozia.
Il piano era semplice: tre giorni in quota, sulle Dolomiti di Brenta
dell’infanzia di B., pervicacemente disprezzate dall’assente MDega – con due notti da trascorrere in rifugio. Dato il
costo proibitivo della mezza pensione in rifugio, da subito appare chiaro che
dovremo portarci sulla schiena il necessario per sopravvivere. Che ammonterà, a spesa fatta, a
A lato, Brindone
in tenuta da sherpa; si noti specialmente il vero protagonista dell’ascensione,
il mostruoso zaino Bob.
Brindone avviò l’auto – l’ammiraglia, stavolta senza scherzi della batteria! - alle sette di un sereno mattino di luglio. Solo il giro di carico delle persone e dei materiali richiese tre quarti d’ora; non ancora partiti, stavamo già accumulando ritardo. Anche il viaggio di andata non sarà scorrevole come previsto: l’autostrada scivola via senza intoppi fino a Brescia; ma più le strade si stringono, più camion e imbecilli incontriamo. Alcuni di essi ci faranno compagnia davanti al parabrezza per ore.
La nostra base è il vivaio Brenta, una capanna nei boschi (1175 slm) alcune centinaia di metri fuori l’abitato di Sant’Antonio di Mavignola, piccolo paese dell’alta Val Rendena tra Pinzolo e Madonna di Campiglio. L’espressione “alcune centinaia di metri” cela in realtà un tragitto da brivido, una mulattiera dissestata in fortissima pendenza, con numerosi ponti e tornanti – roba che se ci si imbatte in un’auto in senso contrario bisogna fare un quarto d’ora di retro prima di trovare un punto della strada abbastanza largo da passarci in due (comunque così vicini da sfiorarsi gli specchietti o sputare in faccia all’altro autista). Ma stavolta è andata bene; non incontriamo un cane fino alla nostra meta. Ciononostante, già da ora prende il via l’incessante litania di maledizioni che Poncharello infliggerà al povero B per l’intera durata del viaggio…
Sono ormai le dieci passate: bisogna mettersi in marcia il più velocemente possibile, o rischiamo di sforare disastrosamente rispetto alla tabella di marcia. Parcheggiamo l’auto; sbarchiamo e ci mettiamo in assetto da combattimento. Scarponi. Zaini. Crema solare. Foto di gruppo (l’unica con tutti e cinque!! - un documento eccezionale)
A fianco, la pattuglia alpina al gran completo: da sinistra, il Capitano, Max, Paulìn, Poncharello e Brindone. Sopra: comincia la marcia, nel suggestivo scenario della Val Brenta. Sotto, il piano di battaglia: in rosso il tragitto dell’andata, in nero quello di ritorno. (clicca sulla cartina per un’esauriente spiegazione).
In marcia. Il primo tratto, come previsto, è essenzialmente pianeggiante. Stiamo percorrendo uno dei fondovalle più suggestivi del Brenta: camminiamo chiacchierando tra prati e boschi di conifere; davanti a noi si ergono – mostruosamente alte – solenni torri di roccia. Da qualche parte lassù c’è anche il nostro obiettivo: la lontananza sembra siderale, ma siamo ancora molto ottimisti. La via è assai poco frequentata. Incontriamo poche altre persone in salita: famigliole coi nonni, coppie col cane – tutti ci parlano della stessa meta, il Brentei, con una tranquillità decisamente ingenua. Ce li lasciamo alle spalle; chissà se saranno sopravvissuti. Viaggiamo spediti: è metà mattina, fa caldo – ma l’aria è salubre e i muscoli non schiantati dall’afa rispondono con vigore. E’ chiaro da subito che il problema non saranno né le gambe né i polmoni, ma la schiena. Gli zaini sono una soma già adesso fastidiosa, che si prevede diventerà intollerabile entro breve. Seguiamo per un paio di chilometri uno sterrato carrozzabile; poi, ad un tornante, imbocchiamo uno stretto sentiero che si inoltra nel fitto del bosco, sul lato destro della valle. Comincia la temuta Scala di Brenta. La pendenza aumenta in modo improvviso e violento: il percorso tortuoso e ripido si snoda tra alberi, enormi radici, rocce coperte di muschio umido. Affrontiamo di buona lena la salita; Paulìn saldamente in testa, nonostante la camminata sconnessa avanza con sicurezza e agilità. Incontriamo due vecchi: pranzano seduti su un sasso – hanno gettato la spugna. Riconosciuto l’inconfondibile accento, Brindone passa a colpo sicuro al dialetto: sono inequivocabilmente cremonesi. La tentazione di pranzare è forte anche per noi: ma non siamo neanche a metà strada della prima tappa; la gente in discesa ci conferma che il tragitto è ancora lungo. Continuiamo a salire.
A sinistra, l’imponente Crozzon
di Brenta coi suoi più di
Il bosco si dirada progressivamente: attraversiamo tratti di frana (anche piuttosto recenti) in cui comincia a comparire vegetazione d’alta quota: rododendri, pini mughi, pini cembri. Siamo saliti e di molto: lo constatiamo guardandoci alle spalle ad una svolta dl sentiero; oltre a Poncharello, che procede a placida andatura da passeggio, ci siamo lasciati ormai decisamente indietro il fondovalle e il manto boscoso. Ancora qualche passo, infatti, e sbuchiamo in una vallata pianeggiante che si inoltra nel cuore delle montagne. Il cielo è ancora lontano sopra le nostre teste, ma decisamente più vicino di qualche ora fa. Lo testimonia il traumatico passaggio tra noi di un’indimenticabile biondina in discesa. Angeli sulle nostre spalle.
Sopra: a sinistra, pausa pranzo alla malga Brenta Alta. A destra, ripartiamo, imbaldanziti dal momentaneo pianoro…
In un prato antistante la malga Brenta Alta – siamo ormai quasi a quota 1700 – ci accampiamo per un frugale pasto con i panini che ci siamo portati da casa. Cappella ci smerda tirando fuori dal suo tapper dei miracoli un pasto pronto a base di riso. Non sarà la prima né l’ultima volta che qualche mendicante affamato andrà a bussare alla sua porta… Il momento di svacco generale non può però essere che di breve durata: le ore passano, e continuiamo ad essere tutt'altro che vicini. Ma ora perlomeno la presenza del Brentei si intuisce, alcune centinaia di metri sopra di noi, appeso da qualche parte sul vertiginoso fondale di titani di pietra. Ci rimettiamo in cammino; per un po' il sentiero prosegue in piano, tra prati e laghi pieni di girini; ma appena attraversato il greto di un torrente in secca, rieccoci a salire. Nel guadare un gelido ruscello, incontriamo un paio di vecchi che gentilmente ci fanno presente che il peggio deve ancora venire. E non possiamo dargli torto: la pendenza si fa molto più accentuata; gli zaini sono diventati di piombo; intorno a noi, solo prati, sassi e folti cespugli: molto verde, ma nessuno schermo al sole implacabile – e siamo nelle ore più calde della giornata. In certi punti, dobbiamo aiutarci con le mani: il sentiero non è altro che un segno tra le rocce. Ogni metro in più è un bagno di sudore: le magliette di ricambio indossate alla malga sono già fradice; ci fermiamo di continuo. L’unica consolazione, è che, per quanto lentamente, stiamo salendo in modo consistente. Sono passate poche decine di minuti, e già il prato del nostro pranzo ed il lago vicino sono diventati minuscoli sotto di noi.
Sopra: a sinistra e a destra, immagini della salita. Al centro, il volto di Cappella provato dalla marcia.
Brindone, intanto, scopre che i vecchi e fidati scarponi sono al capolinea: la suola sta incominciando inesorabilmente a staccarsi. E’ un casino che potrebbe rivelarsi, oltre che seccante, pericoloso, vista la strada non facile che ci aspetta. Per il momento, non c’è altra soluzione che legare il tutto con un doppio giro delle stringhe, sperando che reggano almeno per un po’… Il guaio vero, però, non è questo: e già da un po’ cominciava a darci avvisaglie sospette. Paulìn, che per tutta la mattina ha tirato il gruppo, perde posizioni. All’inizio sembra semplicemente la stanchezza: l’amico degli struzzi, oltre ad essere dedito al fumo e all’alcool, conduce una vita assolutamente sedentaria – niente di strano, quindi, se gli sforzi inopinati della mattinata l’avessero sfiancato. Peccato che non sia così: man mano che procede, Paulìn lamenta dolori sempre più forti alla caviglia sinistra. Ci fermiamo a controllare: effettivamente il collo del piede è molto gonfio. Ragazzi, siamo ufficialmente nella merda. Il gruppo rallenta: e la salita, già massacrante, diventa una vera via crucis. Paulìn combatte strenuamente la fatica ed il dolore, ma è impensabile che resista ancora a lungo. Portarlo giù ormai è fuori discussione: la discesa sarebbe acerba per un uomo in forma, figuriamoci per uno zoppo. Non resta che salire, almeno fino al Brentei. Prende forma la decisione di fermarsi tutti al rifugio questa notte, invece di salire fino al Tosa – ma sarà possibile? Il tempo stringe: B e Max si lanciano in avanscoperta, mentre gli altri tre salgono al passo del ferito. Nonostante tutto, arrivare al Brentei è un sollievo enorme; anche solo per la possibilità di togliersi lo zaino, bere acqua fresca, cambiarsi gli indumenti zuppi. E’ l’unica soddisfazione; perché al bancone del rifugio ci fanno capire a chiare lettere che se proprio necessario, hanno un buco dove infilare il nostro compagno claudicante; ma per gli altri quattro, di posto non ce n’è.
A fianco, spettacolare veduta del Brentei con le cime circostanti (scattata la mattina di lunedì).
Non resta da fare che una
cosa, per quanto sgradevole. Paulìn all’inizio non
vuole saperne, di essere piantato lì da solo; vorrebbe seguirci con i sandali,
meno stretti degli scarponi – ma va da sé che sarebbe
una cazzata molto rischiosa. Si rassegna
all’inevitabile: per consolarlo, gli lasciamo una delle nostre due bottiglie di
rosso; e ne approfittiamo per svuotare gli zaini di tutto quel che non ci sarà
strettamente necessario. L’idea, a questo punto è di salire al Tosa, pernottare
e tornare al Brentei il più velocemente possibile
domattina. Salutiamo il nostro ferito, e ci mettiamo in marcia. Dobbiamo
muoverci: per telefono, quelli del Tosa ci hanno raccomandato di non arrivare
più tardi delle sei. Cosicché, quest’orario si carica
di una valenza misteriosa: che cosa succede alle sei? Perdiamo il diritto al
posto? Calano le tenebre? Lo yeti esce dalla tana? Non lo sappiamo, e ci
auguriamo di non doverlo scoprire a nostre spese. Tanto più che la strada,
valutata in circa un’ora e mezza di cammino, almeno a occhio non sembra né
lunga né difficoltosa. Gli zaini più leggeri ci consentono un passo più
spedito, il caldo si è molto attenuato, e per un buon tratto il sentiero
prosegue in piano lungo la costa della valle. L’unica incognita sembra essere
Ci stiamo inoltrando
speditamente nella lunga gola dolomitica: lo scenario è quasi surreale. Sembra
di essere alle porte dell’Ade, o in qualche valle ai
confini di Mordor. Pareti scoscese di roccia immobile
tutt’intorno a noi, solo ghiaia
e neve sul fondo. Silenzio assoluto, veloce scorrere di brume tra le pieghe
della montagna. Non vive niente, in questa zona, se non qualche erba solitaria
o qualche uccello di passaggio. Forse lassù c’è Shelob che ci aspetta annidata tra i crepacci. Forse verremo rapiti dalle anime dei morti che vagabondano tra le
rocce.
Qui sotto, scorci spettrali del
sentiero per
E infatti, ci attendono un paio di sorprese…
Prima, la neve: nevai di grosse dimensioni, lunghi e spesso profondi – l’unica indicazione di percorrenza sono le orme di chi ci ha preceduto. Qualche ora fa, perché adesso non c’è nessuno. Il primo attraversamento ci lascia perplessi al punto da rischiare, quando il problema si ripresenta, la via delle frane ai lati della gola – non esattamente una buona idea, vista l’instabilità estrema di qualsiasi cosa su cui appoggiamo i piedi. Poi, la corda. “E’ un percorso da bambini”, mi aveva detto per telefono il gestore del Tosa, divertito dalle mie preoccupazioni. Sarà. Ma mentre siamo lì appesi alla parete verticale di roccia scivolosa, con il vuoto dietro la schiena e uno zaino che sembra complottare per trascinarti giù, con l’unico appiglio di un cordino di ferro steso lungo bordi millimetrici… no, decisamente non sembra un percorso da bambini. Intanto, in un punto virtualmente al riparo da qualsiasi copertura telefonica, i nostri cellulari squillano a ripetizione – è la premurosa madre del Capitano, che cerca di mettersi in contatto con lui, irreperibile, attraverso di noi. Siparietto comico in una situazione che diventa quasi allarmante – al punto che non ci sono rimaste fotografie, di questo temibile passaggio, se non le numerose scattate con molta più tranquillità al ritorno.
Insomma, ci ritroviamo al
punto di inizio pagina…
In un modo o nell’altro, ce
l’abbiamo fatta. La bocca di Brenta, con la sua ieratica Madonna ritta tra le
rocce, il suo squarcio improvviso di cielo, le montagne e l’orizzonte sereno al
di là, si spalanca davanti a noi; ed insieme la promessa del traguardo. Le nubi
che temevamo ci restano alle spalle, e con esse la stanchezza: il rifugio è
poco oltre, già perfettamente in vista. Il Cancello Nero è aperto: non resta
che scendere, l’ultimo, breve tratto di sentiero in costa.
Resterà senza spiegazioni l’ossessione delle sei che
ci ha accompagnato lungo la via. Arriviamo a destinazione che sono già le
sette, ma a nessuno sembra importargliene minimamente. Lo yeti non è ancora in
giro; le tenebre non sono calate: anzi, il cielo resterà illuminato a giorno
per almeno un altro paio d’ore. Ma ormai è inutile porsi interrogativi – tanto
più che ci resta un ultimo sforzo da fare: visto che non siamo alloggiati nel
corpo principale del rifugio, ma nella dependance qualche decina di metri più
in basso. Così, di nuovo zaini in spalla…
Occupiamo la nostra stanza:
un buco minuscolo con due letti a castello. Non c’è spazio sufficiente per
muoversi contemporaneamente in due sul pavimento; non sembra esserci aria
sufficiente per garantire la sopravvivenza di quattro persone. Fortunatamente, Poncharello crolla addormentato appena tocca il letto, e
beneficiamo di un’inaspettata tranquillità. A turno accomodiamo il bagaglio, e
consumiamo voracemente il nostro primo pasto da campo: salame, pane, tonno. Di
stappare la bottiglia di rosso, neanche a parlarne: siamo semplicemente troppo
stanchi. Troppo stanchi anche per dare peso a facezie come l’assenza di acqua
calda e di bidet nei bagni. Ormai siamo avvezzi a ben altro. Il nostro
addestramento alla vita selvatica procede bene.
La sveglia ci piomba addosso
in modo imprevisto con le sembianze arcigne di un vecchio che alla otto bussa
alla nostra porta e ci invita a sgomberare. Nessuno ci aveva avvertito di
questa regola, ma dobbiamo adeguarci. “Maledetto Brindone”
– Poncho mormora il suo mantra rituale: la giornata
può iniziare. Con la rapida precisione di una squadra di marines,
ci prepariamo all’azione. Il primo nemico che dobbiamo affrontare è ancora il
vecchio delle pulizie: sono le otto e mezza e ancora ciondoliamo per la stanza
– il tipo s’incazza e fa il culo
all’innocente Cappella. Poco male – ormai siamo tutti e quattro operativi. Più
o meno. Prima di partire, è impellente risolvere il problema dello scarpone di
B: un rocchetto di filo di ferro gentilmente fornito dal rifugio è quello che
ci vuole. Ed ecco una riparazione a regola d’arte, perfetto esempio della
maestria montanara di B. Tanto perfetto che non sopravvivrà alla mattina.
Dopo una rapida – e costosa
– colazione, ci mettiamo in marcia, ripercorrendo la via lacrimosa dell’andata.
Ma ora siamo decisamente più sereni noi, e più clemente il tempo. Poncho e il
Capitano, i nostri due fotografi, avranno tutto il tempo per documentare
l’azione, e realizzare molti filmati interessanti. Peccato che non ci stiano
sul sito.
I tentativi di contattare Paulìn finiscono a vuoto – ma tanto l’idea a questo punto è
di essere al Brentei entro mezzogiorno.
In tutta calma. Anche perché, ci ripetiamo, con tutto il vino che gli
abbiamo lasciato, di certo sarà ben riuscito a tenersi un po’ di compagnia…
Insomma, non è il caso di rischiare l’osso del collo scendendo di fretta dalla
Bocca. Il tempo sarà pure migliorato (anche se all’ombra fa ancora decisamente
freddo), ma i nevai sono sempre lì, anche se più trafficati, e così pure la
parete attrezzata. Sopra a sinistra, Max si accinge alla traversata nella neve;
a destra, l’incauto Brindone, per non mettere a
rischio sulla neve la riparazione degli scarponi, si avvia a rischiare la pelle
sulle rocce. E qui a sinistra, l’idea geniale del regista e dell’artista: la
steady cam. La macchina fotografica di Poncharello, assicurata al suo giubbetto milletasche con la corda del salame di ieri (un materiale
versatile di cui sentiremo ancora parlare…) riprenderà in soggettiva tutte le
mosse del nostro mentre affronta la ferrata. L’operazione, per quanto
difficile, riesce alla perfezione – anzi, il filmato è perfino troppo lungo,
perché io possa caricarlo ora. Ma prima o poi lo vedrete. E vi renderete conto
che questo passaggio di roccia ed acciaio non è per niente una cosa da bambini.
Anche se, a dire il vero, un bambino che lo faceva in salita l’abbiamo
incontrato. Ma aveva il casco. Ed era assicurato con il cordino.
Superati i tratti problematici, la marcia prosegue spedita e senza intoppo. A
parte lo scarpone di B: che oltre a perdere metà del fil
di ferro saltando da una roccia all’altra e finendo nella neve al ginocchio, è
costretto a ricorrere all’ormai indispensabile residuo alimentare. Proprio vero
che del maiale non si butta via niente.
Detto fatto, per pranzo
siamo al Brentei.
Fine prima puntata.
Testo di Brindone.
Foto di Poncharello
e Capitan Cappella.
Le parti evidenziate in
rosso sono quelle sulle quali Poncho ha espresso
riserve. Lo ringrazio comunque per i suggerimenti.