Il grande giorno dell’inaugurazione della rubrica sul cinema è giunto. Marcoz Dega si appropria indebitamente (a discapito del collega ipdac e di quanti volessero corrispondere) dell’onore di aprirlo proponendo una recensione sul capolavoro (abituatevi, questa parola sarà ricorrente) di Michael Cimino “Il cacciatore”, col sempreverde Bobby De Niro. Nata dalla penna di un imitatore di Maurizio Porro, grande firma del Corsera, la recensione si segnala per la particolare seriosità, impersonalità ed inventiva che contraddistinguono lo stile del Maestro (cui, però, vanno i rimbrotti dell’epigono alla data del 20/01/06, allorché si attribuisce, sempre sulle reverende pagine del quotidiano di via Solferino, il voto 10 all’ottimo Allen di “Match Point”, meritevole, diciamo, di un 8 e mezzo). In attesa di sempre nuove recensioni, magari meno pretenziose e sonnifere e più scherzose, Marcoz Dega è lieto di presentarvi la recensione del Cacciatore.

 

 

“Il cacciatore” è la storia di quattro amici che la guerra in Vietnam sottrae alla tranquillità anonima della vita in una comunità montana per confinarli a un destino di morte. Le giornate in paese sono tutte scherzi e battute di caccia, la chiesa è un sobrio interno in cui si abbracciano gli strazi per la morte di un figlio e la felicità malinconica di un matrimonio che appena nato già finisce, interrotto dalla partenza per il fronte, non un campanile a dominare lo skyline di quattro case in legno ma un’immensa straniante fabbrica. Dov’è Dio? Sembra quel cervo che si intravvede nella nebbia con le sue corna a disegnare un’aureola, mentre il cacciatore gli punta un fucile addosso con una sola pallottola perché altrimenti non è leale, e canti religiosi sottolineano che siamo prossimi a un’epifania e a un sacrificio divino. I balli si protraggono forzatamente, perché potrebbero essere gli ultimi ed ogni sguardo è bagnato dalle lacrime di gioia e di tristezza, che sono la stessa cosa, un unico sentimento di precarietà per un futuro forse avverso dopo un felice presente. Tutto dice che qualcuno morirà in Vietnam, è il destino (il regista ne tiene le briglie) che lascia le sue tracce e ci indica che ogni cosa è già scritta e se quei due si devono salvare alla roulette russa catturati da vigliacchi vietnamiti con tre pallottole su sei invece che una è pure merito suo. Il coraggio trascina la sorte insegnando che bisogna guardare la morte negli occhi e non piagnucolare, guai ad essere vili, con uomini o con animali non fa differenza. “Il cacciatore” non è semplicemente la tragedia della guerra ovvero della polvere da sparo, perché i fucili dominano anche lassù sulle montagne ordinate come giardini incontaminati, ma il dramma del caos originato dall’odio e di un destino che gioca le sue carte belle senza essere riconosciuto e le sue brutte scatenando la pazzia nell’animo semplice. Dov’è la differenza fra le cime degli Appalachi e la giungla tropicale del sudest asiatico? Se l’aria pura fra i pini delle vette versus l’odore del napalm ad insozzare la foresta di palme non celasse un’antitesi di valori ed ideali sotto l’insegna della Fortuna, diremmo che è, appunto, solo una questione di odore.